«Vivere contro un muro, è vita da cani»
«Vivere contro un muro, è vita da cani» scriveva Albert Camus nel '48 del secolo scorso: il ventesimo della nostra storia, quello della paura: sia per gli Stati, ingessati dal sistema bipolare, sia per gli individui, che in quella storia erano inevitabilmente arruolati. E ho messo le mani avanti nel contestualizzare la frase per una ragione: vivo a Modena e vedo cani sostituirsi, sempre di più, ai bambini (quadrupedi che sono riempiti di coccole e complimenti, anche quando abbaiano, mentre i bambini sembrano disturbare la quiete pubblica, anche quando non piangono). Con buona pace della denatalità, ma questa è un’altra storia. Quella della seconda metà del XX secolo era invece la storia di una guerra fredda tra gli Stati (o almeno tra le Superpotenze, che sfogavano le proprie pulsioni nelle loro periferie, dove l’Italia era situata); ma incendiaria nella contesa per l’egemonia sull'immaginario collettivo, dove gli Stati Uniti d'America e l'Unione Sovietica si spartirono le vesti di Joseph Goebbels: evangelista di una propaganda più vicina all'ipnosi di massa che alla politica stessa. Propaganda era, in fin dei conti, quella dei nazisti: carica di simboli, rituali e violenza epistemologica (oltre a quella fisica, già raccontata dalla storia). Propaganda rimase, col senno di poi, la reciproca deterrenza tra Oriente e Occidente, la cui grammatica relazionale era connotata dalla paura, che a livello globale aiutava a demarcare il confine dell'interazione tra i due attori; mentre a livello locale serviva per circoscrivere i pensieri, le parole e le idee dei singoli individui: sempre in modi differenti, s'intende. E qui potremmo farci assistere da Alexis De Tocqueville, profeta laico che, già nel 1835, introdusse la riflessione sulla tirannide della maggioranza, la quale "traccia un cerchio formidabile intorno al pensiero", che riscontra nell'ostracismo il proprio prezzo di uscita. E cos'è l'ostracismo se non una forma sofisticata di tortura? messa al bando da una società; soppressione - almeno temporanea - del personaggio che ciascuno è tenuto a rispettare per partecipare nel teatro dell'agorà. A differenza di quanto accade negli autoritarismi, nel teatro liberaldemocratico è sempre possibile uscire dal copione. Ma il costo è quello di venire espulsi dall’agorà, unico spazio dove l'individuo può aspirare all'autoaffermazione: da qui la paura di chi vive contro un muro. Potremmo dire che, nel secolo scorso, c'era più timore di un’eventuale uscita dal copione sociale che dall'atomica stessa, sempre latente ma comunque lontana dall'immaginario collettivo (a meno che non ci si trovasse in uno dei territori direttamente lacerati da tale invenzione): ed è qui che la paura diviene tecnica, non scienza. Paura e scienza s'incontrano per incidente laddove la scienza viene piegata al servizio del potere. Ed è la replicabilità della paura nella vita dei singoli a parlarci dell'efficacia di una tecnica: quella di "vivere" o far "vivere contro un muro", e cioè, vivere come la maggior parte di coloro "che entra oggi nelle fabbriche e nelle facoltà", i quali "hanno vissuto e vivono sempre da cani". Parole forti che Leonardo Sciascia riprese da Albert Camus per parlare delle motivazioni che lo portarono a scrivere La scomparsa di Majorana (La stampa). Ed era proprio Majorana, citato da Sciascia, a ripetere «siamo tutti sulla strada sbagliata»: quella del terrore, che non genera certo un clima favorevole alla riflessione, ma sottopone tutti al silenzio, interrompendo così «il lungo dialogo fra gli uomini», dando vita a un tempo in cui «nessuno parla più, eccetto coloro che ripetono e ripetono»: a venire a meno è la fiducia nell'uomo, dando vita alla cospirazione del silenzio. Una cospirazione nella quale «noi soffochiamo in mezzo a persone che credono di aver ragione, sia che si tratti delle loro macchine o delle loro idee». Perché la cospirazione del silenzio fa soffocare chi non può vivere «se non del dialogo e l'amicizia». Camus definiva questa condizione la fine del mondo, ed aveva ragione: nell'assenza di dialogo si muore. O per lo meno si vive da cani: senza proiezione di futuro. E ad annullare quest’ultima è la paura, che riposiziona i nostri sguardi e le nostre menti contro un muro. Situazione di smarrimento generata da un cocktail di incertezze e frustrazioni generate dalle crisi di questo tempo: rimosse od affrontate a compartimenti stagni, senza tenere conto dell’interconnessione che lega tutte le cose. Perché anche nel mondo dell’iper-specializzazione, se i saperi non s’intrecciano né comunicano, si vive contro un muro. Il muro dell’alienazione, dell’autoreferenzialità, della vita ad algoritmi vissuta di chi parla e interagisce soltanto con i propri simili (almeno nell’apparenza), negando l’esistenza e l’umanità di coloro che non convergono nella medesima sagoma di idee, preferenze e convinzioni parziali che abbiamo tutti; e che tutti vorremmo far passare per assolute. Modus vivendi, questo, che impedisce a noi stessi l’esercizio di una democrazia sostanziale – fondata sul pluralismo, sul confronto tra diversi – ed allontanandoci dalla realtà sociale di un Paese, di un’Europa e di un Pianeta malati; e privi di futuro.
A rendercelo noto, sempre di più, è la voce del creato: termine usato da papa Francesco in occasione della Giornata mondiale per la cura del Creato (1° settembre) per descrivere la polifonia di dissenso, protesta e contestazione che si solleva nei confronti del nostro ritmo di vita, produzione e consumo. Ritmi dettati più dalla voracità che dalla necessità; e ai quali non vediamo alternative, sebbene, nell’assecondarli, stiamo rovinando l’unico pianeta possibile: almeno per maggior parte dell’umanità: e anche qui mettiamo le mani avanti, considerate le sperimentazioni interplanetarie che si sono susseguite nel corso del 2021, vedendo concorrere i due magnati Jeff Bezos ed Elon Musk alla ricerca di un Pianeta B: al momento però di alternativo non abbiamo che il Metaverso, dimensione digitale dove i vincoli della materialità sono pressoché assenti, rischiando di escludere – dal mondo che verrà – i profani del digitale. Dimensione che, nel bene e nel male, ci fa vivere contro un muro, perché spesso carenti di strumenti per porre limiti alla sfera virtuale. Ma questo vivere contro un muro ci parla anche e soprattutto di una posizione esistenziale generata all’intreccio tra disuguaglianze, emergenza climatica, congiunture storiche – come lo sono la guerra e la pandemia – e quella sempre più distante autoaffermazione di nuove generazioni sempre più povere e carenti di futuro. Ne deriva una precarietà esistenziale più acuta di quella vissuta negli anni Settanta del Novecento. E il parallelo viene tracciato in automatico considerando il riproporsi una guerra energetica che destabilizza gli Stati europei e mette in discussione i nostri stili di vita. Quasi a parlare di un altro ’73, ma con alcune differenze: la prima ha a che fare con il ritardo nelle riforme strutturali che da tempo attendono una loro realizzazione, trasformando il nostro Paese in un cantiere abbandonato nel bel mezzo del Mediterraneo; la seconda riguarda invece il processo di integrazione europea, la cui incompiutezza ci condanna a “vivere contro un muro”: quello dell’irrilevanza, della provincializzazione, del lento spegnimento che non ci vede più al centro della storia, sebbene quest’ultima adotti una grammatica eurocentrica. E lo farà ancora per molto. Toccherà a noi cambiare per sopravvivere, o per restare noi stessi. L’ostacolo risiede, ancora una volta, nella paura: l’uscita dal copione, dal ruolo sociale e dalla linea di discorso recitati fino ad ora potrebbe generare l’ostracismo di cui parlava Tocqueville, e cioè una vita nell’irrilevanza. Sarà meglio, dunque, vivere da cani? Ossia nel silenzio o nella ripetizione, che fanno parte dell’addomesticamento di cui il soggetto contemporaneo risente in attesa della Provvidenza o del caso: entità risolutrice di tutti i problemi, anche e soprattutto per chi non ha una fede; e spesso incarnata, per miraggio, nelle vesti di candidati alla disperata ricerca di consensi facili (anche su Tik-Tok). Chissà se avremo il coraggio di riprendere quel lungo dialogo che era stato interrotto circa un secolo fa. Questa la condizione essenziale per essere Civitas, per costruire un noi più grande.
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