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Ucraina: l'ultimo capitolo nell'allargamento dell'UE

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Nel tremendo tumulto della guerra provocata dalla Russia, l’Unione Europea si trova ad affrontare molteplici sfide che ne definiranno il futuro. I dolorosi risvolti delle sanzioni, l’invio di armamenti all’Ucraina, il difficile percorso della difesa comune: queste questioni hanno dominato il dibattito comunitario nell’ultimo mese. Ma la visita a Kiev di Von Der Leyen e Borrell ha riaperto un altro importante fronte di discussione, che riguarda l’eventualità dell’adesione dell’Ucraina all’Unione.

Si tratta di un’operazione complessa che porterà con sé insidie e costi, ma anche nuove opportunità. L’allargamento dell’Unione, fin dai tempi delle Comunità europee, ha sempre comportato una modifica del volto dell’Europa unita, rappresentando una sfida di resilienza per gli assetti istituzionali. In particolare, l’allargamento verso Est è stato il più complesso da affrontare, sia per via della difficile transizione verso la democrazia liberale dei paesi a regime socialista, sia per le radicali differenze tra Ovest e Est nel concepire il vivere comune. Queste differenze sono emerse in tempi recenti, compromettendo l’unità dell’Europa comunitaria.

Non bisogna dimenticare, poi, che la UE ha in programma da anni l’allargamento nell’area dei Balcani, iniziato con la Croazia nel 2013. Se Albania e Macedonia del Nord sembrano avvicinarsi alla conclusione del loro percorso di adesione, lo stesso non si può dire della Serbia e del Montenegro. Quest’ultimi, per motivi differenti, potrebbero rappresentare una minaccia all’unità europea se inseriti nel consesso comunitario. Allo stesso tempo, la procedura di adesione potrebbe rivelarsi lo strumento giusto per risanare le ferite dell’ultimo grande conflitto su suolo europeo, ovvero la guerra in Iugoslavia. Adottando questa prospettiva, è facile tessere un parallelismo con le vicende che stanno scuotendo l’Europa in queste settimane.

Con il “ritorno della Storia” nel continente, la UE è obbligata ad analizzare costi e opportunità dei suoi progetti di allargamento, per evitare passi falsi che ne compromettano la futura coesione di fronte ad uno scenario globale sempre più incerto.

Partiamo analizzando la valenza politica dell’adesione di Kiev all’Unione, e le opportunità che tale operazione porterebbe con sé. Accogliere l’Ucraina tra le file dell’Europa unita significherebbe la culminazione di otto anni di promesse, andando finalmente incontro alle richieste che giunsero nel 2014 durante le rivolte di Euromaidan. Inoltre, all’UE spetterebbe il compito di sottrarre Kiev alle grinfie del regime russo, sostenendone l’economia e la democrazia liberale, entrambe ancora molto fragili.  Ciò permetterebbe di dimostrare ai russi che l’Europa “dall’Atlantico agli Urali” non è una mera invenzione, che c’è un’alternativa all’autoritarismo oligarchico che garantisce pace e prosperità.

Bruxelles avrebbe la responsabilità politica di tutelare l’Ucraina e la sua indipendenza, soprattutto se Kiev rinunciasse definitivamente alla membership Nato. Questo inedito stato delle cose obbligherebbe le classi dirigenti degli stati membri a ripensare radicalmente il significato dell’appartenenza all’Unione Europea. A molti interrogativi riguardanti l’identità di quella chimera che è l’UE, perennemente in bilico tra club di nazioni e federazione vera e propria, andrebbe obbligatoriamente trovata una risposta. Perché un attore temibile come la Russia può essere affrontato solo da un organismo coeso e integrato. I nodi irrisolti dell’integrazione europea andrebbero sciolti, per consentire a Kiev di partecipare compiutamente come Stato membro.

Guardando al quadro complessivo, però, il progetto di adesione deve fare i conti con ostacoli molto evidenti. Partendo dai dati economici, il profilo dell’Ucraina è quello di un paese ancora in via di sviluppo. Il PIL nominale nel 2018 ammontava a 126 miliardi di dollari, mentre il PIL pro capite a 9286 dollari. Il secondo dato, in particolare, racconta di una situazione di povertà diffusa. L’indice di sviluppo umano dell’Ucraina la collocava, prima della guerra, in 84esima posizione nel mondo: in alto per gli standard globali, ma nei vagoni di coda per quanto riguarda l’area europea.

Alla modesta perfomance dell’economia ucraina pre-guerra, si aggiunge la realtà di un sistema politico ancora non consolidato. L’aggressività della Russia ha di certo allineato la maggioranza dell’opinione pubblica su posizioni favorevoli alla UE, soprattutto dal 2014 in poi. Nel 2019 si è verificato un episodio di alternanza democratica, con l’attuale presidente Zelensky che è subentrato a Poroshenko, quest’ultimo eletto dopo la cacciata del filo-russo Janukovyc. Nonostante i passi fatti verso il consolidamento della democrazia liberale ucraina, la legittimità del regime democratico prima dello scoppio delle ostilità era compromessa da problemi di corruzione, la minaccia del separatismo nel Donbas, la povertà diffusa.

Prima dell’invasione russa, la combinazione di fattori politici ed economici avrebbe reso molto difficile soddisfare i requisiti dei criteri di convergenza e dei principi politici e istituzionali che fondano l’Unione. Dopo l’invasione, la situazione è divenuta disperata: invertendo la prospettiva proposta poco sopra, la presenza di truppe russe sul territorio ucraino porrebbe due problemi di difficile soluzione alla UE. Infatti, se Putin dovesse raggiungere i propri obiettivi in Donbas per poi proporre la cessazione delle ostilità, l’Ucraina si vedrebbe sottratto il controllo di intere regioni nell’est e nel sud del paese.

L’Unione si dovrebbe allora interrogare su come procedere nell’integrazione di uno stato parzialmente occupato, in che misura sobbarcarsi i costi della ricostruzione dell’Ucraina e del suo sviluppo futuro, attraverso l’utilizzo dei fondi europei.

Si deve poi considerare un altro fattore d’importanza capitale: la strategia di allargamento dell’Unione si è finora concentrata su altre zone del continente, in particolare i Balcani. Albania e Macedonia del Nord sono i candidati più vicini all’ottenimento dello status di membro dell’Unione. I negoziati finali sono incominciati il 24 marzo 2020, dopo che il rapporto del Commissario per l’allargamento sugli esiti delle riforme richieste ai due candidati ha evidenziato significativi progressi.

L’Albania ha progettato un’imponente riforma costituzionale del sistema giudiziario e di polizia, pensata per far fronte ai dilaganti problemi di corruzione nel paese. Ulteriori riforme si sono rese necessarie per preparare l’economia albanese all’entrata nel mercato unico europeo. L’unico nodo da sciogliere è la legislazione in materia di tutela dell’ambiente.

La Macedonia del Nord ha addirittura dovuto cambiare nome per evitare frizioni con la Grecia. Il governo macedone ha implementato, nel corso degli anni, significative riforme per sostenere la libertà di circolazione delle merci e la competitività. Ma le valutazioni più recenti della Commissione Europea individuano ancora importanti criticità in materia. Inoltre, anche la Macedonia dovrà aggiornare la propria legislazione ambientale se vorrà raggiungere l’obiettivo.

Da questi due esempi si possono trarre ulteriori spunti sulla questione ucraina. I percorsi di questi due candidati sono stati lunghi: la Macedonia ha fatto domanda nel 2004, mentre l’Albania lo ha fatto nel 2009. Entrambi ancora oggi fanno i conti con gli stringenti requisiti richiesti dalla Commissione.

Anche sottoponendo l’Ucraina ad una procedura di adesione semplificata, le riforme necessarie a rendere l’economia di Kiev in grado di competere nel mercato unico impiegherebbero anni a dispiegare i propri effetti. Così come quelle relative allo stato di diritto e al buon funzionamento del sistema giudiziario, fondamentali per assicurare la continuità delle istituzioni democratiche. 

Una “corsia preferenziale” alla membership verrebbe realizzata a discapito di quei paesi che hanno atteso anni per diventare parte dell’Unione. Potrebbe anche richiedere modifiche sostanziali ai requisiti e alle procedure di adesione: ciò finirebbe inevitabilmente per creare precedenti a cui altri paesi potrebbero appigliarsi.

Alcuni candidati portano con sé grosse problematiche per il futuro. Escludendo l’esempio della Turchia, paese ufficialmente ancora candidato che però di fatto è stato escluso dalla famiglia dell’Unione, si possono citare Serbia e Montenegro.

Come l’Albania e la Macedonia del Nord, infatti, anche questi due paesi hanno presentato domanda di adesione negli anni Duemila: il Montenegro nel 2008, la Serbia nel 2009. 

Il rapporto tra questi due paesi e la UE ha avuto alti e bassi nel corso degli anni. Le rispettive opinioni pubbliche hanno fatto dell’allineamento alla UE un oggetto di discussione e controversia.

Sul finire del 2021 sono state le contraddizioni della politica montenegrina ad esplodere: il debito contratto con la Cina per il progetto della prima autostrada del paese, lanciato nel 2009 e ad oggi non ancora completato, ha obbligato il controverso premier Milo Dukanovic a chiedere aiuto a Bruxelles per saldare i conti con Pechino. Fu proprio Dukanovic, alla guida del Montenegro da decenni, ad affidare alla China Road and Bridge Corporation la costruzione dell’autostrada “più costosa al mondo”. Un’opera sovradimensionata alle capacità delle casse montenegrine, che la BEI si è rifiutata di finanziare. Così, i soldi per la realizzazione sono stati prestati dalla Cina, facendo finire il Montenegro tra l’incudine e il martello, stretto tra il costruttore e prestatore.

Dukanovic, che negli anni ha alternato pulsioni europeiste e parentesi nazionaliste, ha gettato il paese in una situazione apparentemente senza via di uscita. L’interesse di Bruxelles è chiaro: impedire che la trappola del debito regali alla Cina un porto sull’Adriatico. Allo stesso tempo, però, la vicenda ha seriamente ostacolato il processo di adesione della piccola nazione balcanica, che procedeva parallelamente ai percorsi di Albania e Macedonia del Nord.

Per la Serbia il percorso di adesione è ancora più irto di ostacoli. Il paese sembra aver superato l’iniziale diffidenza verso l’Occidente, retaggio delle vicende della guerra nei Balcani, ma mantiene tutt’oggi rapporti privilegiati con la Russia di Putin e ha recentemente comprato missili terra-aria Hq-22 di fabbricazione cinese.

Nonostante l’adesione alla UE sia uno dei punti fondamentali dell’agenda del Presidente Vucic, in carica dal 2017, la Serbia sembra prefigurarsi come una nuova Ungheria. Un paese nazionalista, legato alla Russia dalle vicende della storia (a differenza dell’Ungheria, in cui fondamentale è il rapporto personale tra Orbàn e Putin) e aperto ai contributi della Cina, nella forma di investimenti economici e di equipaggiamento militare.

La classe dirigente serba sa che la strategia dell’Unione per l’allargamento nei Balcani non può prescindere dall’includere la più popolosa delle ex repubbliche iugoslave. Il paese è determinato ad accedere alle opportunità di crescita garantite dai fondi europei, senza rinunciare alla storica connessione con Mosca e alla relazione in via di sviluppo con Pechino, seguendo il modello dell’Ungheria.

L’UE, sull’adesione della Serbia, si trova a bilanciare due possibilità contrapposte. Da un lato, Belgrado potrebbe divenire la nuova Budapest, rallentando la difficoltosa marcia dell’integrazione. Dall’altro, l’adesione alla UE ancorerebbe saldamente la Serbia all’Europa e al mondo occidentale e porterebbe a compimento il percorso cominciato con la fine delle ostilità nei Balcani.

Il futuro allargamento dell’Europa unita rappresenta una sfida importantissima. Per un’Unione che dovrà compiere importanti passi in avanti nella sua evoluzione, sarà fondamentale raccogliere nel suo consesso stati membri ben disposti verso la prosecuzione del progetto politico europeista.

Le lezioni del passato mettono in guardia dagli eccessi di ottimismo: gli esiti dell’integrazione di paesi ex-socialisti, che hanno vissuto il XX secolo in maniera molto diversa da quelli dell’Europa occidentale, è ancora difficile da valutare. Allo stesso tempo, le contingenze odierne obbligano l’Europa ad abbandonare le esitazioni, per affrontare a viso aperto le minacce di un mondo caratterizzato dall’incertezza, coglierne le opportunità politiche, difendere il proprio ruolo internazionale e i principi di cui si fa portatrice. Tra cui, quello della solidarietà tra i popoli europei. E’ necessario che le istituzioni comunitarie siano consapevoli della gravità del compito, e dei possibili contrasti che le future adesioni potrebbero far sorgere con attori importanti sullo scacchiere internazionale.

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