U.E. e covid-19, quali sono le conseguenze?
Nella notte a cavallo fra il 9 e il 10 marzo, il governo italiano ha esteso a tutto il territorio nazionale quelle che erano le misure restrittive identificate per le zone rosse, ovvero tutta la Lombardia più altre 11 province settentrionali. L’azione del Governo è stata vista di buon occhio dalla Organizzazione mondiale della sanità (OMS) la quale l’ha definita un “lockdown aggressivo” e potenzialmente molto efficace.
E’ una manovra simile a quella attuata nella provincia di Hubei, più precisamente a Wuhan, dove il governo cinese ha chiuso in quarantena pressappoco 11 milioni di cittadini, un numero analogo a quello della quarantena iniziale riservata a sole aree del nostro settentrione. Inoltre, il tasso di crescita di infettività, descritto dalla “Curva di Wuhan” (elaborata da Silvia Merler di Algebris Policy) mostra una chiarissima corrispondenza fra il trend mostrato inizialmente nell’Hubei e quello della Lombardia. Da questo si desume che il tasso di Wuhan sia applicabile anche a noi, in virtù del fatto di aver esteso la quarantena a tutta la penisola. Ma è davvero possibile essere certi di questa ipotesi? Purtroppo, no. Anche perché le somiglianze Italia-Cina finiscono qui. I maggiori esperti indicano in Italia una tempistica leggermente più lunga, dovuta principalmente a due fattori: l’età media del Bel Paese è più alta dell’Impero celeste, e questo fa sì che il numero di soggetti a rischio faccia prosperare più a lungo il virus che altrove, dove la popolazione ha mediamente una età inferiore. Altro punto da non sottovalutare è la considerazione del sistema istituzionale presente nei due Paesi: in Italia potrebbe esserci un problema di governance e di rapporto istituzioni-cittadinanza che molto potrebbe influire sulla tempistica e sull’efficacia delle misure.
Nel contesto dell’emergenza, si registrano alti e bassi nel rapporto tra l’Italia e la sua casa europea. All’inizio della settimana la Commissione Europea ha annunciato la creazione di un fondo di emergenza da circa 25 miliardi di euro a sostegno dei paesi membri più colpiti dal Coronavirus. Al nostro paese è stata concessa una flessibilità sul deficit fino a 20 miliardi di euro, per affrontare la crisi sanitaria e adottare le misure necessarie a salvare l’economia nazionale, che in questi giorni ha subito un duro colpo. Un segnale di solidarietà e vicinanza da parte delle istituzioni comunitarie, condito anche da un video messaggio in italiano della Presidente della Commissione Ursula Von der Leyen, che finirà probabilmente per passare in secondo piano, oscurato dal disastro provocato questo giovedì dalla Presidente della BCE Christine Lagarde. La Lagarde ha tenuto, nella giornata di giovedì, un lungo discorso per annunciare quello che è nei fatti un nuovo “Quantitative Easing”: un’immissione di liquidità (circa 120 miliardi) nel mercato, attraverso l’acquisto di titoli di stato dei paesi membri. La ratio di questo provvedimento sarebbe quella di sostenere l’economia della zona euro, già prossima alla stagnazione prima del virus e ora alle prese con lo spettro di una possibile recessione. Ma la Presidente si è lasciata sfuggire qualche frase di troppo: “Non siamo qui per chiudere gli spread. Ci sono altri strumenti e altri attori per gestire queste questioni.” Parole molto diverse dal “Whatever it takes” di Mario Draghi, che tranquillizzò i mercati ai tempi della crisi dell’Eurozona. Le conseguenze non si sono fatte attendere, con le borse europee calate a picco, FTSE MIB in testa con un -17%, e l’immagine dell’Unione Europea grandemente compromessa agli occhi dei cittadini. Lagarde ha sostanzialmente detto la verità, dato che l’azione della BCE non può sostituire le necessarie riforme strutturali che i governi europei dovrebbero adottare per rilanciare l’economia. Ma ha commesso l’errore di dichiarare tutto ciò a mercati aperti, sottovalutando la sensibilità degli investitori a tali affermazione. E anche se le borse europee hanno recuperato le perdite, l’immagine dell’Unione come attore nella crisi ha subito un duro colpo. Nella giornata di venerdì la Presidente Von der Leyen si è detta disposta a concedere all’Italia e al resto d’Europa i necessari strumenti di flessibilità, rassicurando il mondo della finanza e mettendo una toppa al danno compiuto il giorno prima. Non rimane che attendere gli sviluppi concreti di questi annunci, con la palla che passa nel campo degli stati in prima linea contro l’emergenza.
Nell’ultima settimana di marzo scatteranno le 12 settimane dall’avvenuta dichiarazione di epidemia in Cina da parte dell’OMS. Questa scadenza terrorizza i sottoscrittori dei “pandemic bonds” emessi dalla Banca Mondiale: particolari obbligazioni emesse nel 2017 che scadranno a metà luglio 2020, ma con il rischio che il Covid-19 faccia scattare la liquidazione del capitale investito. In totale la Banca Mondiale ha raccolto 320 milioni di euro: 225 milioni per bonds classe A, i quali staccano una cedola mensile del 7% e i restanti per la classe B, che stacca una cedola del 11%. La differenza tra le due classi emerge se scoppia una pandemia, dato che gli investitori delle obbligazioni classe A rischiano di perdere il 16% circa del capitale investito e quelli di classe B addirittura il 100%. Due dei criteri per attivare la liquidazione sono 2500 morti nel paese dov’è nata l’epidemia ed almeno 20 morti in un altro paese, purtroppo ben superati. Un altro criterio è quello citato all’inizio, ovvero che siano trascorse 12 settimane dall’inizio dell’epidemia e sia stato registrato un aumento del tasso di crescita dei contagi. I capitali in liquidazione sono destinati ai paesi più poveri, escludendo quindi i paesi europei, attualmente i più colpiti dall’epidemia.
Viene da chiedersi: esiste nella zona euro un meccanismo di condivisione del rischio che potrebbe intervenire in caso di aiuto? Escludendo il MES, che interviene per altri motivi, tra i Paesi che possiedono l’euro non esiste lo strumento dei c.d. “Eurobonds”, ovvero delle obbligazioni la cui solvibilità sia ancorata a tutti i paesi dell’eurozona. Questo strumento di condivisione del rischio trova come oppositori i paesi più rigidi in materia di bilancio e debito pubblico, per via della possibilità che si verifichi il fenomeno del ”azzardo morale”. I paesi meno rigorosi potrebbero approfittare della stabilità garantita dagli altri membri dell’Eurozona per indebitarsi maggiormente a costi ridotti. In un contesto dove le politiche fiscali sono di competenza totalmente nazionale si andrebbe a sbilanciare la leva solidarietà\responsabilità. Deve quindi essere ribadito che la scelta di non adottare gli “Eurobonds” ha natura principalmente politica, dato che ci sono Paesi che dovrebbero condividere shock in condizioni economiche (debito, deficit, bilancia commerciale) eterogenee. Ma nel caso di condizioni omogenee come l’impatto di una pandemia la condivisione del rischio è diversa. Immaginiamo fosse esistito uno “European pandemic bond”, ancorato al rischio pandemico, basato non sull’indebitamento di uno Stato ma sulla probabilità che in quello Stato scoppi un’epidemia. Come avrebbero reagito i Paesi europei più rigorosi sulla condivisone di questo rischio? Un default finanziario in Grecia è più probabile di uno in Germania. Ma un’epidemia? L’Unione Europea in questo momento di fortissimo shock esogeno deve implementare politiche coraggiose e considerare questi strumenti, nei limiti del proprio mandato. Per ora è il “Corona Response Investment Initiative”(C.R.I.I.)il primo segnale di coordinamento lanciato dall’esecutivo europeo in risposta alla crisi che si prospetta. E’ sempre più comune per gli organismi istituzionali giocare d’anticipo.
Fra le due principali variabili da tenere in considerazione per poter avere una idea di quale sarà l’approccio dei Paesi europei e dell’Unione europea, bisogna intanto ricordare la principale: quanto durerà il virus e quanto questo sarà percepito come un pericolo dalle economie. Infatti, la formula di contagio prima dal mondo finanziario poi all’economia reale si è manifestata anche stavolta. Questa volta a bloccare l’economia reale non è solamente un contagio dal mondo della finanza ma un blocco politico causato, in Italia e in Cina, dalla quarantena. Se, come dicono alcune stime, il virus troverà in Italia il suo apice entro l’inizio di aprile, e in Europa fino a inizio maggio, di sicuro sappiamo che continuerà a circolare in forma latente e pressoché innocua per diverso tempo, anche dopo la fine della crisi. La domanda sarà quindi, quale sarà la percezione di questa evidenza? I mercati riprenderanno fiducia? Di sicuro la tenuta dell’Unione sarà messa a dura prova: è per questo che si rende necessario, ora più che mai, sentirsi ed essere europei.
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