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Ripercorrendo il processo di integrazione - Parte sei: "La fragilità italiana durante gli anni Settanta"

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Negli articoli precedenti abbiamo parlato dell’accelerazione del processo di integrazione europea con l’uscita di scena di Charles De Gaulle e il decadere dei veti francesi verso ogni tentativo di rafforzare le istituzioni comunitarie. Successivamente abbiamo parlato degli anni Settanta e del rilancio di un’Europa Unita, della strutturazione di un’Europa che si riformava e si allargava allo stesso tempo. Ma, come vedremo, le riforme non basteranno. Le crisi e le tensioni degli anni ’70, con l’Italia epicentro dell’instabilità del continente rallenteranno il processo di integrazione europea. In questo episodio ricapitoleremo brevemente la situazione interna dell’Italia negli Anni di Piombo e lo stato del panorama internazionale nello stesso periodo.

Un contesto ingarbugliato: gli anni della distensione e la fragilità italiana

A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, l’Europa muoveva i primi passi sullo scenario politico mondiale. La sua immagine era quella di una comunità errante, in movimento, alla ricerca di un suo ruolo nello scenario politico mondiale.

Già nel decennio precedente era sorta qualche dissonanza nei confronti del bipolarismo USA-URSS con la nascita del Movimento dei Non Allineati nel 1961. Benché questo terzo blocco non contasse sull’adesione di potenze capaci di incidere direttamente sugli equilibri mondiali, tale gesto simbolico equivaleva a una nota fuori dal coro in un contesto internazionale che appariva chirurgicamente spartito in due.

D’altro canto, il lungo processo di decolonizzazione che aveva ridimensionato ulteriormente il peso di potenze come la Francia e il Regno Unito, apriva le porte all’entrata di nuovi attori nello scenario politico internazionale. Dal Sudest asiatico all’Africa subsahariana passando per quella settentrionale, in tutte e tre le fasi della decolonizzazione [1], la società internazionale si è improvvisamente ritrovata con nuovi Stati che reclamavano una loro titolarità nel Diritto Internazionale e, in alcuni casi, ne proponevano la revisione. Tutto questo in un mondo che nell’ottobre del 1962 era stato sull’orlo dell’Olocausto nucleare e, poco più di un anno dopo, aveva assistito all’assassinio del Presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy.

Quest’ultimo evento risuonò in tutto il mondo, ma ebbe particolari conseguenze in Italia. Nel 1963 si era formato il primo governo Moro: l’apertura a sinistra era stata possibile anche grazie allo sforzo dell’amministrazione Kennedy che, dando forti segnali di conciliazione, aveva l’intenzione di tracciare una nuova frontiera in Europa. Durante uno scambio epistolare tra Harriman e Saragat, l’ambasciatore statunitense aveva espresso che non bastava “concedere aiuti finanziari ai Paesi sottosviluppati” ma era necessario “patrocinare gli interessi sociali ed economici della gente comune” e che era questo il “Piano della Nuova Frontiera”.

Il governo durerà 231 giorni: Moro rassegnò le dimissioni in seguito allo scontro tra i partiti laici e la DC sulla sovvenzione delle scuole medie private. Il secondo e il terzo governo Moro continuarono l’esperienza del Centrosinistra, che si interromperà nel 1968 con un governo monocolore (Leone II) per riprendere nel dicembre 1968, durante il primo e il terzo governo Rumor. Il governo Colombo I proseguì a sua volta con la formula del Centrosinistra mentre la quinta legislatura si chiudeva nel febbraio del 1972 con una composizione monocolore (Andreotti I). L’esperienza del Centrosinistra verrà riaperta il 14 marzo 1974 con l’insediamento del quarto governo Rumor e proseguirà nel quinto, dimessosi il 3 ottobre 1974 e succeduto dal quinto e dal sesto governo Moro in chiusura della VI Legislatura. Muoveva così i primi passi una coalizione di governo riconducibile al clima di distensione tra il blocco atlantico e quello sovietico.

La VII Legislatura venne caratterizzata da un inedito esito elettorale. Alle elezioni del 1976 il PCI riuscì ad aumentare i consensi di 6,23 punti percentuali rispetto alle precedenti elezioni arrivando al 33,83% dei voti, mentre la DC rimase stabile al 38,88%. Sulla base di questo risultato, si iniziò a ipotizzare l’inclusione del più grande partito dell’opposizione nelle aree di governo e passare così da una democrazia speciale a una democrazia compiuta. Ideato da Moro, questo processo sarebbe stato denominato Terza Fase e avrebbe avuto come obiettivo la piena integrazione, nel modello liberal-democratico, dei movimenti che presentavano ambiguità rispetto a tali principi. Allo stesso tempo, l’unione delle più grandi forze politiche del Paese avrebbe concesso una più solida base di consenso alle istituzioni democratiche in una stagione che sarà una delle più difficili del dopoguerra.

L’apertura al PCI viene vista con riluttanza sia ad Est che ad Ovest. Non mancheranno le critiche di Bonn e di Washington nei confronti della Terza Fase, lo sguardo insospettito dei Paesi del Patto di Varsavia nei confronti di Berlinguer e le resistenze della sinistra extraparlamentare, della destra eversiva e, persino di alcune correnti della DC.

Il progetto subirà un duro colpo il 16 marzo, poche ore prima del voto di fiducia al governo Andreotti, con l’eccidio di Via Fani e il sequestro Moro. Nel clima di emergenza, il governo monocolore incassò una rapida fiducia ma ebbe vita faticosa, dovendo fronteggiare il terrorismo brigatista. Il PCI tornò stabilmente all’opposizione, mentre il quinto governo Andreotti, sostenuto dal PSDI e dal PRI, chiuse la settima legislatura.

Le elezioni politiche del 1979 videro un drastico calo dei comunisti, che persero 4 punti percentuali.

In sostanza, il quadro politico interno si rivelava particolarmente instabile e la scarsa durata dei governi svelavano la fragilità di una partitocrazia faziosa al suo interno, la quale, di governo in governo, offriva all’Europa e al mondo l’immagine di un Paese non governato in cui era impossibile progettare ed eseguire politiche di lungo respiro.

 

 

CIVITAS EUROPA - DIVISIONE RELAZIONI INTERNAZIONALI

Estefano Soler

 

 

Note

[1] La decolonizzazione può essere suddivisa in tre fasi principali: la prima ebbe inizio negli anni Quaranta e vide la decolonizzazione di gran parte del Sud-Est asiatico; la seconda fase è identificabile negli anni Cinquanta, quando l'indipendenza fu conquistata dagli stati dell'Africa settentrionale; la terza e ultima fase ebbe inizio negli anni Sessanta quando la decolonizzazione si verificò con particolare rapidità e intensità, nell'Africa subsahariana.

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