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Ripercorrendo il processo di integrazione. Parte otto "La tempesta: terrorismo e instabilità democratica"

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In questo episodio trattiamo del terrorismo in Italia, dei pericoli di tenuta democratica del Paese e delle preoccupazioni internazionali generate dai rapimenti, dalle stragi, dalla violenza politica.

L’instabilità politica, tra terrorismo rosso e terrorismo nero. La bomba che esplode il 12 dicembre 1969 nella Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano dà inizio ad una stagione segnata da violenza, attentati terroristici e da un clima di elevata conflittualità politica e sociale in cui gli estremisti extra-parlamentari attaccano l’ordine costituzionale. Il terrorismo nero e il terrorismo rosso avevano lo stesso fine: indebolire e delegittimare le istituzioni democratiche attraverso l’uso della violenza. Se, attraverso i metodi eversivi, la destra neo-fascista cercava di indurre lo Stato italiano a forme di autoritarismo di stampo militare, l’estrema sinistra impiegava metodi sovversivi per far scatenare, prima o poi, la rivoluzione. Nei primi anni ‘70 che inizia l’azione delle Brigate Rosse, le quali danno vita a una serie di rapimenti che, oltre a significare un attacco al mondo industriale, avevano lo scopo di finanziare la propria attività con il bottino dei riscatti. La “propaganda armata” delle BR verrà superata da un progetto politico mirato a sovvertire gli equilibri politici nazionali.

Il fallito tentativo di golpe ai danni delle istituzioni democratiche nella notte tra il 7 e 8 dicembre del 1970, conosciuto come “golpe Borghese” e partorito negli ambienti dell’estrema destra, rafforza il clima di tensione. Durante tutto il decennio degli anni Settanta, le BR rapiscono e uccidono giornalisti, procuratori, imprenditori, uomini dello stato. La destra eversiva si rende responsabile di attentati dinamitardi tra i quali si ricorda quello del treno Italicus e quello di Piazza della Loggia a Brescia. Ma il punto più alto di questa escalation di violenza viene toccato il 16 marzo 1978, data del rapimento del Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro. Uccidendo i cinque uomini della scorta, le BR diedero vita ai 55 giorni più drammatici della storia della Repubblica. Il 9 maggio 1978 il del corpo senza vita dello statista viene ritrovato nel pieno centro di Roma, nei pressi di Via Caetani, tra Piazza del Gesù e Via delle Botteghe Oscure. La teatralità con cui le Brigate Rosse hanno eseguito e concluso l’attentato ha determinato una cesura particolare. L’omicidio dello Statista significa la fine di una Terza Fase della democrazia italiana che prevedeva l’apertura alla partecipazione al governo del più grande partito di opposizione, il PCI, per sbloccare una politica in condizioni di stallo. La polarizzazione in atto e la scomparsa di Moro, uno dei principali fautori del “compromesso storico”, impedirà ogni proseguimento della trattativa. Cosi come nelle stragi di Piazza Fontana, Piazza della Loggia e dell’Italicus, il rapimento Moro sarà segnato da un’intensa attività di depistaggi che conterà sulla partecipazione di settori deviati all’interno degli organi di Pubblica Sicurezza. L’intensità della partecipazione di servizi deviati e l’eventuale influenza di potenze straniere nel caso Moro e nelle altre vicende degli Anni di Piombo, risulteranno sconosciute fino alla de-secretazione degli archivi che ne parlano. Ma già nell’agosto del 1978, durante un colloquio, il Ministro dell’interno Rognoni aveva parlato di “alcune prove di legami internazionali” a sostegno dei gruppi eversivi italiani. Il clima di tensione e violenza trasformò la democrazia italiana in un unicum a livello Occidentale, persistendo nei primi anni Ottanta.

Il Terrorismo italiano visto dall’esterno: Negli anni che vanno dal 1969 al 1988, ci furono un totale di 7000 attentati in sul suolo italiano di cui si contano migliaia di feriti e 410 caduti. Sono 176 le singole vittime di rapimenti o uccisioni terroristiche, mentre le vittime di stragi ammontano a 135. Sempre sul suolo italiano, le vittime del terrorismo internazionale sono state 58 mentre le vittime di violenza politica sono 41 in totale. La situazione italiana aveva attirato l’attenzione delle principali cancellerie. Diversi punti di vista si intercetteranno nel tentativo di capire la natura di un fenomeno che affondava le sue radici nel malessere sociale vissuto nel Paese ma si progettava, ampiamente, verso l’esterno. Se, ad Ovest, l’Italia era vista come un partner irrinunciabile della NATO, ad Est, soprattutto per Mosca, Roma era considerata un’interlocutrice, un ponte di dialogo verso Ovest. Allo stesso modo, il Paese aveva un ruolo centrale nel processo di integrazione europea. A nessuno conveniva, dunque, la sua destabilizzazione politica e sociale. Il Paese vive un lungo processo di destabilizzazione che impedisce all’opinione pubblica di capire se si fosse di fronte alla fine di un’epoca oppure se si stavano aprendo le porte verso un nuovo capitolo della storia del Paese. Lo stallo politico ed economico di quegli anni faceva presagire il deterioramento di una politica che perdeva copertura e rappresentatività per cedere lo spazio agli estremi, ossia, al terrorismo nero e al terrorismo rosso. La differenza tra terrorismo rosso e terrorismo nero è stata sottolineata, con molta enfasi, dagli intellettuali polacchi, i quali per parlare del fenomeno italiano cercarono di differenziare il terrorismo sovversivo da quello stragista. Il tentativo di separare il fenomeno in due forme fu comune a tutto blocco dell’Est, che in seguito, comunque, se ne dissociò in toto. In quegli anni, Parigi ricevette continue preoccupazioni dal Palazzo Farnese. Si parlava dell’Italia come anti-modello, partitocrazia e persino come “homme malade d’Europe” in bancarotta politica e morale. La cancelleria parigina guarderà con preoccupazione al prestito della Repubblica Federale Tedesca nel 1975, la quale a sua volta stabilirà la condizione di non riproporre la formula di governo del Centrosinistra. Londra, che era stata bersagliata di una lunga campagna di terrorismo da parte dell’IRA, si dimostrava preoccupata per la tenuta democratica del Belpaese. A preoccupare Londra sarà il rapimento Moro il cui epilogo conterrà una teatralità traumatizzante. La diplomazia di Bonn, come detto, si dimostrava preoccupata per le aperture a sinistra e, nel 1977, invita le rappresentanze diplomatiche a prestare la massima attenzione al fenomeno del terrorismo in Italia. Secondo l’ambasciatore tedesco Arnold, i nuclei di lotta armata ritenevano il PCI “traditore della loro causa”. Bonn e Londra coincidevano nell’individuare nella storia di violenza politica e nella gestione della crisi economica, tutte variabili interne, le origini del fenomeno terroristico in Italia. Neanche la CIA riuscì a individuare l’esistenza di una trama internazionale che collegasse l’azione delle Brigate Rosse a un’eventuale pista cecoslovacca, libica, bulgara o, persino, nicaraguese.

La questione dei legami internazionali verrà ripresa da Pertini nel 1980, il quale aveva esplicitato al Presidente della Commissione Europea, Roy Jenkins, di dubitare sulla direzione interne del terrorismo italiano. Pertini parlerà anche di un campo di addestramento libico sulla cui esistenza era venuto a conoscenza durante un colloquio con il Presidente algerino Chadli Bendjedid. Le accuse di Pertini si ripeteranno anche durante il messaggio di fine anno in cui farà allusione al ruolo dell’URSS innescando una serie di reazioni da parte del PCI e di Mosca. Nonostante i sospetti, a prevalere sarà la visione antropologica sul fenomeno terroristico italiano. L’ipotesi sui legami internazionali passava a un secondo piano se si prendevano in considerazione fattori come la mancata modernizzazione sociale, la questione meridionale con il conseguente impatto demografico nelle città più industrializzate del Nord, le immatricolazioni di massa di fronte alle quali le università italiane si trovarono impreparate, la disoccupazione giovanile e intellettuale in un Paese strutturalmente manifatturiero. Il terrorismo appariva come un effetto collaterale dell’arretratezza e dello status quo che ne impediva il superamento.

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Conclusione: Benché considerata un osservato speciale, l’Italia ha esercitato un ruolo rilevante sia nel processo di integrazione europea sia nella politica estera di quegli anni. Il peso di Roma in ambito internazionale sarà determinato da fattori di tipo geopolitico, economico e di prassi diplomatica che, in senso stretto, la renderanno co-protagonista di alcuni passaggi chiave nella politica mondiale. Con una partecipazione di primo piano nei negoziati che portano all’atto finale di Helsinki nell’agosto del 1975 e nella promozione del voto per il parlamento europeo concretizzatosi qualche mese prima, l’Italia di quegli anni ci offre un paradosso che non dovrebbe sfuggirci. Il Paese, seppur soggetto a un’ondata di violenza e terrorismo non ha abdicato al ruolo di mediatore tra le Potenze europee e le Superpotenze. A differenza di quanto accaduto nelle crisi più recenti, le minacce da ogni lato, rivoluzionarie o reazionarie, non hanno mai messo a rischio l’adesione di Roma alle principali alleanze internazionali. La proiezione esterna del terrorismo nero e di quello rosso non è stata sufficiente a far vacillare la partecipazione dell’Italia al processo di integrazione e, tanto meno, alla Nato. L’adesione di Roma a tali alleanze era stata accettata dal PSI e, più tardi, dal PCI di Berlinguer. In questa situazione del tutto particolare si potrebbe incorrere nella tentazione di affermare che, più che occuparsi della politica estera, la classe politica avrebbe dovuto occuparsi prima di risolvere i problemi interni. Tuttavia, c’è da dire che già da allora era impossibile scindere le due realtà. L’intreccio tra politica interna e politica estera era – ed è – all’ordine del giorno, ma non è scontato esserne consapevoli né, tantomeno, esercitare un ruolo attivo all’interno di un’arena così complessa e poco redditizia in termini di consensi elettorali come lo è la politica tra gli Stati. L’intreccio tra ciò che accade dentro e fuori i confini nazionali si verifica nella vita di ogni giorno, nell’importazione e nell’esportazione di beni, prodotti e materie prime e nel flusso di persone che si spostavano da una parte all’altra. Questo, soprattutto, nel caso europeo dove era già in vigore il mercato unico. Anche nelle ragioni della contestazione e della reazione c’erano delle dinamiche geopolitiche che spingevano gli attori a difendere determinate posizioni. Anche il terrorismo, nero e rosso, si dimostrava la variante estrema della contrapposizione in blocchi attorno alla quale si divideva la politica interna ed esterna del Paese. Non bisogna dimenticare il processo di cooperazione avviato a livello internazionale nel tentativo di superare una delle tappe più buie nella vita politica italiana che, come abbiamo accennato prima, coincideva a pieno con una stagione difficile per l’economia mondiale e per la tenuta del sistema internazionale in generale. Il fatto stesso che l’Italia fosse attraversata dalle due grandi frontiere che hanno determinato, e determinano tuttora, l’andamento della politica internazionale, rendeva i diplomatici italiani consapevoli dell’incidenza che il loro operato aveva sul presente e sul futuro del Paese. Ed è forse il fatto di non aver abdicato a un ruolo attivo a livello internazionale, e particolarmente nella CEE, l’elemento chiave che ha aiutato l’Italia a rimanere una democrazia e a non precipitare nelle mani del terrore.

 

CIVITAS EUROPA - Divisione Relazioni internazionali Dr. Estefano Soler Tamburrini

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