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Per superare una classe politica “indietrista”

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Per superare una classe politica “indietrista” e senza un immaginario di progresso

 

Estefano J. Soler Tamburrini

 

Questo articolo tratta sulla disfatta di Montecitorio e dintorni commentata da chi vede la crisi politica italiana dal basso. Esso non vuole corrispondere alle analisi di coloro che, sulla base dell’autorevolezza garantita dall’interazione con gli attori politici coinvolti nella crisi, cercano di analizzare le inutili trame che si generano intorno a leadership politiche decadenti, la formazione di una coalizione “indietrista” – per citare un neologismo coniato da papa Francesco a seguito della visita pastorale in Canada – e, infine, la disgregazione di un fronte progressista senza un immaginario di progresso. Quest’ultimo espressione di una democrazia come sinonimo di containment, rinunciando più volte a una sua traduzione sostanziale. Si preferisce evocare l’ingerenza russa in una versione due punto zero: oligarca, postsovietica, reazionaria e ingiustificabilmente guerrafondaia a seguito dell’invasione dell’Ucraina. Ragioni di peso, queste, che certificano l’esistenza in vita di una paura che, fondata o meno, non è causa principale della disfatta di Montecitorio (e chi scrive ha sempre ritenuto che un po’ di fondatezza ci sia riguardo all’ingerenza di Mosca nella politica interna, la quale però ci conduce a un dibattito più ampio sulle ingerenze statunitensi o sui tentativi di spionaggio francese, con buona pace dell’Europa Unita). Il male che proviene dall’Est resta un’invenzione letteraria utile a produrre coesione sociale di containment, contrapponendo il bene al male, l’identità all’alterità, la civiltà alla barbarie. Perché “ciascuno chiama barbarie ciò che non è nella sua usanza”, come affermava Montaigne nella sua critica alle atrocità compiute dagli europei nei confronti delle popolazioni native del cd. Nuovo continente. Tale invenzione non è però sufficiente a giustificare la penosa condizione di un Paese che vede spartite le sue vesti in tempo di crisi e avversità. A poco sono serviti gli appelli alla responsabilità, come quello lanciato dal Presidente della Cei Matteo Zuppi lo scorso 22 luglio[1], e l’esortazione di circa 100mila cittadini che hanno firmato la petizione per la permanenza del governo nata su iniziativa di Matteo Renzi[2]. A spaventarli è stata l’evocazione della responsabilità, connotata all’immediata perdita di consenso in una classe politica fondata sull’intrattenimento ed in costante fuga dal Paese reale. Nessun’ingerenza, dunque, al di fuori del narcisismo endemico che rende miope, goffa e irriflessa l’azione del politico contemporaneo. Perché ci vuole una spietata quota di narcisismo per innescare una crisi politica nel bel mezzo di un’emergenza globale che ha delle ricadute significative sulle parti più vulnerabili del corpo sociale. Un corpo sociale incancrenito dall’aumento delle povertà (nel 2022 si contano circa 5,4 milioni di persone in povertà assoluta secondo i dati Istat) frutto delle disuguaglianze in costante crescita dagli anni Ottanta del Novecento[3]. Disuguaglianze, tutte, sempre più acute tra una generazione e l’altra in un Paese senza mobilità sociale. Già nel 2018, l’Istat aveva rilevato che, per la prima volta sin dagli inizi del Novecento, gli individui in età compresa fra i 25 e 40 non sarebbero riusciti a migliorare la propria posizione sociale rispetto a quella del proprio nucleo familiare. L’ironia ha voluto che questo accadesse alla generazione più istruita nella storia d’Italia.

Per essere più specifici: “due terzi dei bambini di genitori senza un titolo di studio secondario superiore restano con lo stesso livello d’istruzione, e solo il 6% delle persone con genitori senza un titolo di studio secondario superiore ottiene una laurea; quasi il 40% dei figli di lavoratori in occupazioni manuali diventano essi stessi lavoratori nello stesso tipo di occupazione mostrando poca mobilità sociale verso l’alto; il 31% dei figli con padri con basse retribuzioni continua ad avere retribuzioni basse”[4]. L’OCSE stima siano necessarie cinque generazioni per osservare, in Italia, il miglioramento della condizione socioeconomica di una generazione rispetto a quella precedente. Questi alcuni dei problemi sociali che mettono a rischio il tessuto sociale stesso; e che non trovano spazio nella cacofonia di partiti trasformati in “macchine di potere e di clientela” con “scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero” come affermato da Enrico Berlinguer nell’intervista rilasciata ad Eugenio Scalfari e pubblicata su Repubblica il 28 luglio 1981. Da quell’intervista ad oggi, le condizioni non sono mutate nella sostanza. La Seconda repubblica fu la verniciatura della Prima in fase di irreversibile scomposizione. Si arrivò persino a dichiarare la nascita di una Terza che si avvicinasse di più alla Prima: mutando tutto senza nulla mutare, passando dalla Repubblica delle stragi a una strage di repubblica. Quest’ultima soggetta a un’inversione dei rapporti mezzi-fini frutto della fine dei grandi racconti: quelli che, di tanto in tanto, ispiravano le persone illustri a sacrificare, volenti o nolenti, sé stessi per il bene comune. Oggi invece il bene comune è gestito secondo logiche privatistiche e spartitorie, venendo talvolta sacrificato per il bene del partito o dei gruppuscoli di interesse che ne dettano le decisioni. In questo modo la verniciatura cade e la scomposizione, sempre più insopportabile, produce odori fetidi ed espone lo sguardo umano ad un funesto spettacolo: come quello visto dal Visconte Medardo di Terralba mentre cavalcava per la pianura di Boemia diretto all’accampamento dei cristiani, dal quale sarebbe tornato dimezzato dopo un violento combattimento con i turchi. A pagarla saranno gli abitanti di Terralba, dove il Visconte compirà alcuni gesti dispettosi: pere, fiori, animali saranno trovati a metà oltre alle severe punizioni inflitte dal Visconte, oppure dalla sua metà peggiore nei confronti di malfattori. Parodiando Calvino: il racconto evoca il tempo presente, dove un altro Conte, reduce da una traumatica esperienza di governo da cui uscirà dimezzato, inizia a fare le cose a metà: apre delle crisi senza capirne gli esiti fino in fondo e genera forti disequilibri nell’ecosistema parlamentare italiano. Il resto è cronaca. A differenza del Visconte Medardo, la versione nostrana farà fatica a ricongiungersi con la sua metà più buona. Le condizioni presenti però non ci danno molti margini di attesa. Tanti i dossier aperti mentre il teatrino distopico prodotto – sempre volente o nolente – dal nostro (vis)Conte raggiunge il suo epilogo. Altrettanti quelli ignorati: e qui ci riferiamo al Pnrr, invenzione di riscatto per quella parte viva del Paese oggi chiamata a superare la cultura dell’emergenza: madre sempiterna di una storia di subalternità sedimentate ed oggi contemplate con spirito dogmatico: come se non ci fossero alternative. Chissà se, con lo scuotimento degli equilibri interni ed esterni, riusciremo a cambiare prospettiva. O almeno a riscoprire, nell’assenza di classe politica e negli errori dei visconti, un’opportunità di coinvolgimento, di partecipazione politica diffusa.

Forse, come scrisse Niccolò Machiavelli ne Il Principe (c. XXVI): “volendo conoscere la virtù di uno spirito italiano, era necessario che la Italia si riducessi nel termine che ella è di presente, e che la fussi più stiava che gli Ebrei, più serva ch’e Persi, più dispersa che gli Ateniesi, sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa e avesse sopportato ogni sorta di ruina”. Se è vero che nei momenti peggiori questo Paese riesce a tirar fuori il meglio di sé, potrebbe aprirsi qui un’occasione di riscatto per una generazione di precari, poveri, vulnerabili e subalterni costretti a vivere come anime erranti: cercando all’estero ciò di cui il proprio Paese li ha privati. Ma non ci sono ricette: la strada è tutta da costruire. E va tracciata non in funzione del 25 settembre, ma guardando ben oltre. È una strada che riparte dall’interazione serrata e continua nella dimensione locale, dove risiede “tutta la politica” come affermava Philipp Thomas O’Neil nel 1935. È la politica di prossimità la sola a compensare la sensazione di distanza, svuotamento e disaffezione politica prodotta da un cambiamento d’epoca che rende tutti poveri nel senso etimologico della parola in quanto mancanti di qualcosa di cui si ha la necessità. In questo caso, mancanti di strumenti di lettura per comprendere un mondo che cambia. Ed è in questa reinterpretazione della povertà che la classe dirigente italiana si riscopre tra i ceti più poveri di questo Stato-nazione. Una classe obsoleta e dimezzata; ma che non può né deve impedire il tentativo di educarci a una comunità che, per rimanere sé stessa, è più volte chiamata a cambiare. È il tentativo (disperato) di chi, guardando dal basso, è chiamato ad agire perché, nella consapevolezza di sé, sa che in caso contrario dovrà subire la peggior parte nel calvario appena descritto.

 

 

Note:

[1]"Si presenta inevitabile l'ora dei doveri e delle responsabilità per cui la politica dovrà trovare il più virtuoso punto d'incontro tra ciò che è buono e ciò che è realmente possibile perché le risorse esistenti non vadano sprecate ma collocate al servizio del bene comune e dell'intera popolazione". L’articolo è consultabile al seguente link Governo: Zuppi, "è l'ora della responsabilità, basta tatticismi" - Oltretevere - ANSA.it

[2] Crisi governo, le notizie del 18 luglio - la Repubblica

[3] Per un ulteriore approfondimento, è possibile consultare la banca dati online “World inequality database” Italy - WID - World Inequality Database

[4] 2 World Economic Forum. The Global Social Mobility Report 2020. Equality, Opportunity and a New Economy Imperative. Platform for Shaping the Future of the New Economy and Society. Gennaio 2020. http://www3.weforum.org/docs/Global_Social_Mobility_Report.pdf

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