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Parigi: proteste e rivendicazioni fuori tempo in un mondo che cambia

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Un’analisi sulle proteste francesi viste da lontano: dalla prospettiva di un mondo che cambia e nel quale la società europea perde centralità. Anzi, l’ha già persa. Non più centrali le sue lotte, idee e convinzioni: ormai per un mondo che cammina a un altro passo e vive un altro tempo storico. Le proteste parigine, che trattiamo come punta di un iceberg (e non di più), riguardano anche il tema dei diritti perduti e difficili da ripristinare in una società chiamata a fare i conti con il resto del mondo, con il quale è in debito. E man mano che si resiste a questo cambiamento, o si protesta senza tenerlo in considerazione, si muta la propria posizione nello scacchiere politico.

È una questione di prospettive. A Milano, un parigino che protesta per i propri diritti appare come un radicale. Visto da Nuova Delhi, lo stesso parigino potrebbe passare come un reazionario, che rivendica antichi privilegi. Perché i diritti che l’Occidente ha sempre dato per scontato risultano dei privilegi per un mondo che non se li è mai permessi; e che ora insorge, pretende e rivendica una fetta sempre più consistente della stessa torta. E non ci sono più i criteri narrativi né materiali per tornare indietro e rivendicare un primato europeo in tale situazione.

Provando a leggere il contesto con le tassonomie usate nel nostro immaginario per la Révolution, il resto del mondo si è accorto di essere il Terzo stato mentre l’Europa ricopre, sempre di più, la veste di Ancien regime: museo di scudi araldici, di utopie che non attecchiscono più nell’immaginario degli altri. A dimostrarlo la Guerra d’Ucraina: evento con implicazioni globali, per gli europei, ma dal sapore di antica faida familiare, ereditaria, per un mondo che ha cominciato ad archiviare l’Europa e i suoi problemi. Un risveglio strano: come se il pamphlet dell’abate Sièyes fosse circolato anche tra gli Stati che una volta consideravamo subalterni.

Le proteste e l’eterno gerundio

Stanno protestando, i francesi. Se accompagnato da questo soggetto, il verbo può rimanere coniugato al gerundio con serenità. Perché i francesi protestano. Lo fanno a prescindere dalla fase storica a cui si faccia riferimento. E in questo si distinguono dagli italiani: al di là del torto o della ragione. Sono più testardi e meno servili. E il tutto fa sorridere: perché ci illude, almeno un po’, di avere a che fare con una storia ancora viva.

Le proteste francesi sono una specie di Certificato di esistenza in vita della società europea, ormai priva di narrative capaci di stimolare pulsioni, rivolte e rivoluzioni, per usare una parola ormai bandita dal lessico politico dei Duemila. In questo caso, i francesi protestano per la riforma delle pensioni, che prevede la variazione dei 42 regimi in vigore nel Paese. E qui non possiamo farci illusioni: la riforma resterà. Lo ha confermato il Conseil constitutionnel [1]. Una scelta che rafforza l’Eliseo e che rende sempre più remoto ogni eventuale ripensamento su questa politica. Tutto sta ad indicare che le proteste parigine si spegneranno senza generare alcun mutamento nella réforme des retraites: esito scontato considerata la disgregazione delle opposizioni, disposte a tutto nel verbo ma poco coraggiose nell’assumersi la responsabilità di ostacolare la riforma. Perché in politica non c’è il sommo bene: si sacrificano i pensionati per evitare l’emorragia delle casse dello Stato e viceversa. Casse che non possono più essere ingrossate in assenza di prerogative imperiali estrattive, come quelle che garantiva il colonialismo, e di politiche fiscali restrittive. Perché i ricchi non si toccano: altrimenti fuggono. No, non si toccano: tantomeno se l’inquilino dell’Eliseo è un loro rappresentante.

Sembra un peccato, per le narrative del sociale, contraddire il lemma dei diritti acquisiti. Diritti per i quali i francesi protestano con legittimità. Perché legittima è ogni manifestazione contro tutto ciò che può far regredire il benessere e la qualità di vita di uno o più gruppi sociali. E diciamo gruppi, per non nascondere la pluralità e la frammentazione dietro la voce cittadinanza, che pian piano si sta svuotando.

L’impressione è che, nel magma indistinto delle rivendicazioni che avanzano nelle manifestazioni, l’obiettivo sia quello di voler ripristinare una gamma di diritti sociali che accompagnò la seconda metà del Novecento. Missione impossibile per uno Stato che, seppur più forte di quello italiano, appare rachitico e impotente dinanzi all’impeto di un mondo che cambia. Si protesta contro lo Stato rivendicandone una tutela che esso non può più garantire. Soprattutto in un mondo che non ha mai vissuto la stessa stagione di diritti; e al quale non interessa più ciò che accade in un continente che non è più punto di riferimento.

Risiede qui, e non tanto negli slogan manifesti, l’anima delle proteste parigine. Semplificando: la réforme des retraites appare il detonatore di un malessere ben più ampio. Il malessere di una società plurale, frammentata, e non più rappresentata dagli attori istituzionali. Problema rilevato dal presidente della Conferenza episcopale francese, Eric de Moulins-Beaufort, per il quale “la crisi intorno alla riforma delle pensioni mette fortemente in questione i processi di concertazione e le decisioni collettive previste dalle nostre istituzioni o almeno, la loro concreta applicazione”.

“Le violenze – prosegue l’arcivescovo - che abbiamo visto a margine di alcune manifestazioni nei giorni scorsi e commesse da alcuni gruppi che fanno di essa un’arma politica, i drammi a volte causati dalle reazioni non sempre sufficientemente controllate da chi serve l’ordine pubblico, turbano i nostri concittadini e sono un sintomo. Un sintomo allarmante dello stato del tessuto sociale”. Sintomo da non sottovalutare, laddove lo Stato è davvero esistito. Sintomo che dovrebbe interessare anche noi, che di Stato ne abbiamo meno.

Potremmo interrogarci all’infinito su che cosa abbia trascinato i francesi a questo livello di insofferenza nei confronti dell’Eliseo. Insofferenza che appariva spenta, con il trionfo in solitaria di Macron alle presidenziali del 2022, ma riemersa qualche mese fa. Malessere motivato, che spunta con cadenza stagionale e già analizzato in sedi più legittime, più legate al territorio e alla situazione interna.

Tuttavia, una cosa potremmo permettercela: osservare, da lontano, le proteste francesi. Noi, profani, proprio perché non implicati, possiamo allontanarci dall’oggetto e analizzarlo da una prospettiva storica. Prospettiva che però può intrappolarci: perché la questione francese è metafora di una ben più triste e complessa crisi europea, ma anche occidentale. E c’è poco da fare: la questione ci riguarda, eccome!

Uno sguardo alla situazione francese

Vorrei quindi cogliere le cose con un po’ di realismo: perché i francesi protestano sempre. Lo fanno dinanzi al declino del Paese e delle cose; soprattutto dinanzi al declino del Paese e delle cose. E non mi farei ingannare dalla loro animosità, che li contraddistingue dagli italiani: al di là del torto o della ragione. Ce lo insegna la storia contemporanea, così eurocentrica da iniziare – nel nostro immaginario, s’intende – undici anni prima dell’Ottocento; e non nel 1776, con la Rivoluzione americana. Allora l’Europa, intesa come idealtipo più che come area geografica, poteva ancora definirsi baricentro della politica mondiale. Ancora per un secolo e poco più, prima di suicidarsi in due conflitti mondiali da cui sarebbe uscita liberata, ma da sé stessa. E liberata da sé stessa vuol dire commissariata, messa a tacere.Il processo lo conosciamo bene: comincia a Yalta e Postdam, dove le potenze, quelle vere, non fanno che constatare lo stato delle cose, dando a ciascuno il suo. A Mosca, l’est; a Washington, la tutela di potenze impotenti, non più autosufficienti. Giustizia spartitoria, questa, ma male minore rispetto al sommo male rappresentato dal nazifascismo, in primis, e dal possibile scontro fra Mosca e Washington.

Le prove di questo decentramento si sono avute a Suez, nel 1956, e con la crisi energetica del 1973 (di cui dovremmo ricordarci meglio per capire questo strano 2023). Il tutto all’interno di un lungo processo di decolonizzazione, di presa di parola degli altri e di raccoglimento dell’Europa su sé stessa. Trauma difficile da rielaborare per chi è stato abituato a interagire senza riscontro con l’alterità, considerandola subalterna o da convertire. Ce lo insegna Charles De Gaulle, ossessionato da un’autonomia strategica irrealistica rispetto alle potenze, quelle vere. Anche lui, da buon francese, contestatore. Un contestatore reazionario. De Gaulle contestava il mutamento provocato dal bipolarismo, che dettava l’agenda mondiale. E lo fece uscendo dal comando integrato della Nato, ma restando dentro l’alleanza. Lo fece anche testando la sua force de frappe il 13 febbraio 1960 nel poligono di Reggane, nel Sahara algerino. Force de frappe ingessata dai compromessi, dai debiti storici ed economici. All’uomo simbolo della resistenza non basterà dire "Urrà per la Francia! Da questa mattina è più forte e più fiera". Il suo era un saluto demagogico. Un banale tentativo di rimuovere la realtà delle cose. E chi, se non Parigi, avrebbe potuto permetterselo? Lei: simbolo della storia contemporanea iniziata con la révolution. Storia in corso, che allora apriva le sue porte a una nuova e più drammatica stagione.

Stando alle tipologie offerte dalla révolution, l’Europa era diventata l’Ancien regime mentre il resto del mondo si era progressivamente riconosciuto nel Terzo stato. Qualcuno prima, come gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica, qualcuno dopo: come la Cina e l’India.

L’Ancien regime della politica mondiale

È come se il pamphlet dell’Abate Emmanuel-Joseph Sieyès fosse circolato un’altra volta, da metà Novecento in poi, ma in versione geopolitica. Riproponiamo qui la versione originale.

« Qu'est-ce que le Tiers-État ? Le plan de cet Écrit est assez simple. Nous avons trois questions à nous faire. 1º Qu’est-ce que le Tiers-État ? Tout. 2º Qu’a-t-il été jusqu’à présent dans l’ordre politique ? Rien. 3º Que demande-t-il ? À y devenir quelque chose. »

Nella sua versione globalizzata, riletto e rivisitato da metà Novecento dalle ex-colonie europee, il pamphlet potrebbe dire:

« Qu'est-ce que le Reste-du-monde ? Le plan de cet Écrit est assez simple. Nous avons trois questions à nous faire. 1º Qu’est-ce que le Reste-du-monde? Tout. 2º Qu’a-t-il été jusqu’à présent dans l’ordre politique mondial? Rien. 3º Que demande-t-il ? À y devenir quelque chose. »

À y devenir quelque chose: domanda che appare esaudita, a livello formale, con l’affermazione del principio di uguaglianza e autodeterminazione dei popoli. Uguaglianza e autodeterminazione con cui bisogna fare i conti ogni volta che in Europa si parla di diritti acquisiti. E con cui bisognerà fare i conti, con sempre più accortezza, nel futuro. Tempo dove potrà pur rimanere intatto il gerundio protestando, ma rivolgendosi a chi? Difficile una risposta laddove abbiamo a che fare con Stati sempre più simili a degli scudi araldici. Quelli che in passato avevano un valore e che oggi contempliamo con nostalgia. La stessa con cui il cantautore Daniel Balavoine, nel lontano 1978, recitava:

France, si tu meurs demain Tu sauras au moins Que ce n'est pas moi

Canzone profetica, che sembra essersi già avverata. Ed è inutile che la nostra Penisola osservi con derisione tali circostanze. Noi, che non ci permettiamo neppure di protestare per condizioni ancor più umilianti e vessatorie. Noi, che non proviamo più sdegno dinanzi ai soprusi. Perché quelle proteste saranno pure ciniche e autoreferenziali, ma tengono in vita quelle emozioni che, di tanto in tanto, scuotono le nazioni, determinandone il progresso, come diceva Tocqueville.

Uscendo però da questo piccolo orticello, in un mondo interconnesso e destinato a una più allargata, o meno ingiusta, distribuzione delle risorse, ci si interroga: Che cosa sarà dei diritti individuali? Li vedremo scomparire insieme al primato occidentale? Toccherà, a tutti, regredire insieme?

Oppure si potrà aspirare, un domani, a una versione globale, ma più austera, dei diritti individuali, sociali ed economici? Sempre che vi sia la volontà politica per farlo. E quanto ci vorrà di allora?

La sfida sarà quella di cominciare a fare una traduzione interculturale di quei diritti che, pur chiamandoli universali, fino ad ora abbiamo declinato in chiave occidentale. Si tratta di rendere intellegibile, per gli altri, quanto costruito fino ad ora. E occorre fare in tempo, prima di trasformarci noi negli altri. Lo sanno bene i francesi che, già da qualche anno, impiegano del personale cinese nei locali de La Fayette per far sentire a casa i clienti più pregiati. Trattamento ben diverso da quello riservato a quei francesi, di colore e cultura diversi, nati in Periferia.

Tocca ammettere, con amarezza, che merci, servizi e capitali ci portano a compiere delle acrobazie mai tentate per l’umano. E questo ci renderà, ancora per un po’, una potenza comica: forte con i deboli e deboli con i forti, come dimostrano le vicende di Cutro e del Qatargate. Vicende che rendono ancor più valido, per gli altri, il pamphlet di Sièyes nella versione da noi rivisitata.

Qu’est-ce que le Reste-du-monde? Tout. Qu’a-t-il été jusqu’à présent dans l’ordre politique mondial? Rien. Que demande-t-il ? À y devenir quelque chose. 

Così.

 

Estefano Soler Tamburrini

 

Note

[1] Abel Mestre, Le Conseil constitutionnel sur la réforme des retraites: une décision qui "renforce" l'exécutif, lemonde.fr, 14 aprile 2023.

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