L'UE e i flussi migratori: il rischio dell'ideologizzazione e l'opportunità della gestione
Ormai da anni e pressoché ovunque in Europa, il dossier relativo all’immigrazione è considerato prioritario da governi e partiti politici di ogni estrazione. Non esiste esecutivo che non abbia sentito e non senta tuttora l’esigenza, impostagli alternativamente dal tamburo mediatico quotidiano o da situazioni di reale emergenza, di esprimere con tono imperativo le sue valutazioni ideali o ideologiche sul tema e i suoi piani strategici per affrontarlo.
Alcuni governi hanno assunto posizioni di rigida chiusura; altri, a dire il vero la maggioranza, hanno adottato un approccio moderato di timida apertura, mantenendosi tuttavia sempre pronti a virare verso l’atteggiamento dei primi; altri ancora in un primo momento si sono schierati per un’accoglienza tout court, apparentemente ispirati da un sincero idealismo di natura umanitaria, salvo poi tornare sui loro passi per accostarsi all’approccio intermedio e prudente dei secondi.
Tutti, indistintamente, devono fare i conti con un attore fondamentale in politica: l’opinione pubblica. Nel mezzo di un’epoca in cui i sovranisti e i populisti, ove non siano già approdati al governo, detengono un notevole potere di pressione e condizionamento, le fughe in avanti pro-accoglienza hanno quasi sempre sottratto consenso ai loro fautori. In alcuni casi sono state probabilmente tra le cause prime del ridimensionamento storico dei partiti eredi delle tradizioni politiche novecentesche, a partire da quelli socialdemocratici e popolari.
La moderazione, declinata nei termini di un contingentamento severo degli arrivi e di una stringente selezione in entrata, sembra per ora resistere alla prova delle urne, seppur tra difficoltà crescenti. Infine, i propugnatori del pugno duro, incarnato dalla chiusura fisica e talvolta dalla militarizzazione dei confini, crescono nei sondaggi e si pongono come alternativa credibile, agli occhi della cittadinanza europea, rispetto alle consolidate politiche migratorie degli ultimi decenni.
Oggi non di rado sentiamo sociologi e politologi sostenere la tesi, suffragata da ricerche ed analisi affidabili, secondo la quale il fenomeno dell’immigrazione viene sistematicamente deformato dai media. Essi lo gonfierebbero a dismisura cercando di intercettare ataviche paure di ampie, e trasversali, fasce della popolazione. Questo cortocircuito dell’inconscio, che si rinnova ad ogni notizia sensazionalistica di sbarchi dipinti come invasioni, avrebbe come conseguenza diretta la distorsione della percezione da parte dell’opinione pubblica delle reali dimensioni del fenomeno nel suo complesso e, conseguentemente, della sua reazione. Il cerchio, in questo modo, si chiude.
Credo, tuttavia, che questa ricostruzione non sia sufficiente a spiegare la reazione scomposta di gran parte della cittadinanza europea rispetto a queste tematiche. Individuare i colpevoli nei media, spesso, è una via d’uscita semplice per evitare di trattare gli errori o le deficienze nella risposta politica a problemi reali. In quest’ottica, occorre risalire nel tempo per fermarsi ad analizzare quel delicato passaggio della recente storia europea nel quale l’immigrazione, prima di allora fenomeno conosciuto e in qualche modo gestito ordinariamente, si è trasformata in emergenza.
Il biennio 2015-2016, dati alla mano [1], ha visto un forte aumento degli ingressi in Europa, la gran parte dei quali attraverso canali irregolari. Il solo anno 2015 ha fatto registrare 1.822.177 attraversamenti irregolari delle frontiere europee, a fronte dei 282.933 dell’anno precedente.
Questi numeri si ponevano in netta discontinuità rispetto alla media del decennio precedente, che si attestava intorno ai 100.000 ingressi annuali. Ci si potrebbe chiedere, ex post, se quelle cifre, in termini assoluti, fossero davvero in grado di sconvolgere gli equilibri sociali e il dibattito pubblico dei paesi interessati a fronte di una gestione efficace dei flussi e della permanenza sul suolo europeo di quelle persone. Ma, oltre ad essere sempre troppo facile ragionare col senno del poi, apparve subito chiara l’estrema difficoltà con cui l’UE reagì all’intensificarsi degli ingressi.
L’Unione si mosse fin subito, come indicato dall’Agenda sull’immigrazione pubblicata dalla Commissione nel 2015 [2], perseguendo due obiettivi di fondo: cercare di tamponare i flussi nell’immediato e mettere in atto una serie di operazioni volte a prevenire l’immigrazione di massa in futuro.
Già nelle prime fasi, le resistenze di alcuni paesi, in primis quelli appartenenti al gruppo di Visegrád, non permisero di normalizzare una situazione emergenziale non tanto per i numeri assoluti degli arrivi, quanto per la mancanza di un sistema di accoglienza, redistribuzione e integrazione condiviso. L’atteggiamento attendista di Francia e Germania, pur formalmente disponibili a prendere in considerazione il superamento del regolamento sulla prima accoglienza e sul processo delle domande d’asilo, è sembrato sottendere un calcolo di convenienza politica e una sostanziale indisponibilità ad un cambio radicale dell’approccio complessivo all’immigrazione.
Nel tirare un bilancio complessivo delle politiche migratorie europee degli ultimi anni, è difficile esprimere un giudizio univoco su un insieme piuttosto disomogeneo, sebbene non sempre incoerente, di programmi, attori e azioni. Per rendere la valutazione più schematica possibile potrebbe essere opportuno focalizzarsi prima sulla politica interna e poi su quella esterna. Questa cesura, del resto, sembra trasparire dagli stessi documenti ufficiali nei quali la strategia europea ha gradualmente preso forma.
Per quanto riguarda la prima, è lampante la mancanza di un effettivo salto di qualità nella gestione solidale del fenomeno migratorio. La Convenzione di Dublino, che recentemente la Presidente della Commissione Ursula Von der Leyen ha affermato ufficialmente di voler superare, rimane ad oggi un ostacolo rilevante. L’assenza di un meccanismo chiaro e permanente di redistribuzione tra i Paesi membri, inoltre, pare essere dovuto ad un’incapacità di fondo nel superare un approccio emergenziale, inevitabilmente sottoposto alle amplificazioni e alle distorsioni del circuito mediatico, e nel normalizzare un fenomeno sistemico e duraturo.
Il ruolo svolto dalle ONG nel Mediterraneo è sembrato essere un altro segnale dell’insufficienza delle operazioni dirette dall’UE. A partire dal 2015, quando Triton ha di fatto ristretto il campo operativo di Mare Nostrum, ci sarebbe stata invece la necessità di aumentare la presenza nel Mediterraneo. Un atteggiamento di questo tipo avrebbe testimoniato che l’Unione era pronta ad assumersi la paternità morale di un compito cruciale per la salvaguardia della vita e dei diritti umani fondamentali. Contrariamente, essa è parsa essere più incline, almeno sul versante interno, al disimpegno, delegando indirettamente, e parzialmente, questa responsabilità ad organismi privati, le ONG, svincolati dal controllo politico sia delle comunità nazionali che della cittadinanza europea.
In assenza di una chiara presa di posizione da parte di Bruxelles, il nobile sforzo messo in campo dalle Organizzazioni Non Governative ha contribuito in modo decisivo a stimolare la percezione, in parte fondata, di una situazione di caos organizzativo e sovranità violata che si prestava perfettamente alla retorica anti-immigrazione. In un momento di vulnerabilità, sarebbe stato decisivo, piuttosto, rilanciare la sovranità dell’Unione per legittimare agli occhi dell’opinione pubblica continentale un salto di qualità nella gestione dei flussi.
A tal proposito, è doveroso ricordare che le politiche di integrazione, le quali sono essenziali ai fini del successo delle strategie migratorie nel loro complesso, rientrano – insieme alla definizione dei volumi di ingresso dei cittadini di paesi terzi ai fini della ricerca di un’occupazione e al mantenimento dell’ordine pubblico e della salvaguardia della sicurezza interna - nelle materie per le quali esiste un’esplicita riserva di competenza statale [3].
Anche e soprattutto su questo fronte, se vorrà essere efficace nel lungo periodo, l’Unione dovrà gradualmente superare le divisioni e le incongruenze dei diversi sistemi nazionali. A prescindere dall’impianto valoriale di riferimento, l’immigrazione è un tema rilevante con il quale tutte la classi dirigenti devono e dovranno confrontarsi. Il successo o l’insuccesso nel governare questo fenomeno molto probabilmente continuerà ad essere, in futuro, una determinante cruciale del consenso politico. Chi predica la difesa dei confini, al momento, sembra avere il vento della storia in poppa.
È lecito porsi, quindi, un quesito che resta quasi sempre implicito e inevaso nel dibattito pubblico, pur essendo cruciale. La prospettiva del migrante, persona in fuga da guerre, fame, sofferenze, pericoli, minacce di varia natura, o anche semplicemente in cerca di un futuro migliore per sé e per la propria famiglia, è veramente inconciliabile con quella di chi deve governare e, in democrazia, punta legittimamente a farsi rieleggere? L’opinione pubblica è realmente così sbilanciata su posizioni di rigida chiusura identitaria e di avversione rispetto all’accoglienza?
La risposta a queste domande è tutt’altro che semplice. Sicuramente una parte non irrilevante della popolazione europea è spaventata da quella che ritiene essere una minaccia agli equilibri etnici, religiosi e, in generale, culturali del Vecchio Continente. Allo stesso modo sembra difficile escludere che un almeno altrettanto consistente quota di europei non sia irrimediabilmente contraria ad una società multietnica e, soprattutto, insensibile rispetto ai profili di opportunità che i flussi migratori possono implicare. Ciononostante, perché l’accoglienza possa trasformarsi da sfida dell’oggi in opportunità del domani vi è una condizione fondamentale, per non dire vitale, che non può essere disattesa: la capacità gestionale.
La risposta concreta messa in atto dall’Unione Europea è ancora troppo influenzata e ostacolata dalle singole politiche migratorie degli Stati membri. E soltanto una reazione corale e solidale da parte dell’intera Unione, trainata dai suoi azionisti di maggioranza, può produrre una gestione efficace dell’immigrazione nelle sue diverse fasi. Purtroppo, nel periodo successivo al 2015, in sede politica sembra essersi affermata una tendenza preoccupante all’ideologizzazione della questione migratoria, amplificata e rinnovata dai media.
Ne è conseguita, specie nell’immediato post-emergenza, una polarizzazione dello spettro politico costruita su un’idealizzazione del fenomeno migratorio e dei suoi protagonisti in senso estremamente negativo o positivo a seconda dei retroterra valoriali. Il migrante è stato trasfigurato, nel calcolo – talvolta errato - della convenienza politica, in un soggetto pericoloso e nocivo oppure in una risorsa spesso non meglio precisata per la società.
La complessità connaturata alla gestione razionale e alla pianificazione lungimirante ha spinto tutti, anche e soprattutto coloro i quali si annunciavano come fautori della società multietnica, a trascurare l’aspetto logistico della prima accoglienza e, soprattutto, delle politiche per l’integrazione. Ad esso è stato preferito un approccio ideologico e idealistico che puntava a dipingere l’integrazione alternativamente come un obiettivo impossibile da realizzare oppure come un processo spontaneo generato automaticamente dall’incontro di culture diverse.
Il resto è storia: le forze politiche pro-immigrazione hanno avuto un rimbalzo negativo in termini di consenso, pur con diverse sfumature a seconda degli specifici contesti nazionali, e ampio spazio si è aperto per la propaganda e le strumentalizzazioni delle forze politiche anti-immigrazione.
Eppure, dalla realtà sarà difficile fuggire. Il progressivo e rapido invecchiamento della popolazione europea porrà una serie di sfide al mantenimento del livello di benessere raggiunto dalle ultime due generazioni. La bassa natalità, l’erosione della percentuale di popolazione in età da lavoro e l’aumento dell’aspettativa di vita creeranno i presupposti per un notevole affaticamento dell’avanzato sistema di tutele sociali oggi in vigore negli Stati europei, il quale rischierà di non essere più sostenibile dal punto di vista finanziario.
L’immigrazione, pare ovvio, potrebbe giocare un ruolo decisivo nei prossimi decenni per ringiovanire la popolazione e dare nuovo slancio al tessuto socioeconomico europeo. Di questo, come si evince anche da una serie di studi e analisi prodotti negli ultimi anni [4], tra le classi dirigenti nazionali ed europee vi è piena consapevolezza.
Tuttavia, perché ciò possa avvenire senza stravolgere gli attuali equilibri politici, lo sforzo per una gestione razionale del fenomeno migratorio dovrà prevalere sull’istinto alla polarizzazione ideologica.
Mario Zazzi
Collaboratore esterno - CIVITAS EUROPA
Mario Zazzi, studente di Relazioni Internazionali all’Università di Parma, coltiva da anni la sua passione per la politica italiana ed internazionale, aspirando a lavorare in ambito diplomatico o giornalistico. Pratica a livello agonistico il tennis tavolo ed è un avido lettore di tutto ciò che riguarda la storia, l’economia e il costume degli Stati Uniti d’America.
Note
[1] https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=File:Immigrants\_from\_outside\_EU-27\_and\_emigrants\_to\_outside\_EU-27,\_EU-27,\_2013%E2%80%932018\_(million).png ; https://ec.europa.eu/eurostat/documents/2995521/7203832/3-04032016-AP-EN.pdf/790eba01-381c-4163-bcd2-a54959b99ed6
[2] https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/IP\_15\_4956
[4] https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php title=Population_structure_and_ageing/it#:~:text=Nel%20periodo%20compreso%20tra%20il,costituiranno%20il%2031%2C3%20%25%20della ; https://ec.europa.eu/transparency/regdoc/rep/1/2020/IT/COM-2020-241-F1-IT-MAIN-PART-1.PDF
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