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Il superamento del sistema "Dublino": tra utopia e realtà

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“Concludo dicendo che questo è un Patto in cui abbiamo imparato la lezione del passato: ci siamo ritirati e abbiamo tracciato una linea di demarcazione rispetto all’ex sistema “Dublino” in quanto emblema di un sistema che addossava un onere sproporzionato agli Stati membri di primo ingresso e che non era affatto attrezzato per affrontare situazioni di crisi […]”

Queste sono le parole del vicepresidente della Commissione Europea Margaritis Schinas pronunciate il 23 settembre 2020 in occasione della presentazione del nuovo Patto europeo sull'immigrazione e sull'asilo, ovvero un documento con valore programmatico e politico per i prossimi 5 anni.

Queste parole fanno eco ad una volontà, ovvero quella di superare la logica delle norme di Dublino, già espressa dalla presidentessa della Commissione Ursula Von der Leyen nel suo discorso sullo stato dell'Unione in cui ricordava che i paesi più “esposti” ai flussi migratori “devono poter contare sulla solidarietà di tutta la nostra Unione Europea.”

Alla luce di queste dichiarazioni, questo articolo vuole esaminare e cercare di capire il perché della necessità di superare il sistema “Dublino”, in quale modo si vuole agire e se effettivamente questa volontà si tramuterà in azione attraverso il Patto, che per ottenere valore di legge, dovrà ancora essere discusso e approvato dagli altri due organi istituzionali europei ovvero il Parlamento e il Consiglio.

Cos'è e perché si vuole abolire il trattato di Dublino?

Con il “sistema Dublino” si fa riferimento a tutte quelle norme che regolano la gestione delle persone che arrivano in Europa illegalmente, per esempio attraverso gli sbarchi, e stabilisce qual è lo Stato responsabile per la valutazione della richiesta di asilo del migrante. Nel testo si fa riferimento a diversi criteri di scelta del paese competente tra cui per esempio la scelta in base a dove il migrante ha già dei legami familiari. Nella pratica però i vari criteri non trovano spesso applicazione [1] creando quasi sempre le condizioni per l’impiego di un cosiddetto criterio residuale, il quale attribuisce la responsabilità di esaminare la richiesta di asilo del migrante allo Stato di primo ingresso nell’Unione Europea. A livello giornalistico e mediatico, è esattamente all’applicazione di questo criterio che si fa riferimento parlando della “logica di Dublino” o del “sistema Dublino”.

Le norme di Dublino prevedrebbero anche un meccanismo secondo il quale i migranti, una volta riconosciuto il loro status legale, dovrebbero essere redistribuiti su tutto il territorio europeo in base a delle quote. Nel contesto della cosiddetta crisi dei rifugiati, questa redistribuzione si è scontrata però con gli interessi degli Stati nazionali.  Paesi come l’Ungheria, la Polonia, l’Austria, ma non solo, si sono infatti rifiutati di partecipare alla distribuzione seguendo una politica basata su idee nazionaliste e a volte anche apertamente razziste. Tutto ciò si è manifestato, concretamente, in una evidente asimmetria nella gestione della valutazione delle richieste di asilo e dell’accoglienza dei migranti a scapito dei paesi di frontiera tra cui l’Italia, la Spagna e la Grecia.

Al fallimento della logica di Dublino, detta anche del “burden sharing” o della solidarietà, si collega anche il drammatico problema della mancata tutela dei diritti fondamentali dei migranti i quali si trovano spesso in una condizione di detenzione in quelli che vengono chiamati hotspots. Recentemente l’incendio del campo di Moria, in Grecia, ha riportato alla ribalta della cronaca le situazioni di sovraffollamento e di precarietà in cui riversano i migranti in attesa del processo di richiedenti asilo.

Per tutti questi motivi negli ultimi anni si è ritenuto fondamentale superare questo sistema basato sul criterio del primo paese di arrivo, cercando  nuove forme di solidarietà che potessero essere accettate da tutti gli stati membri dell’Unione.

In che modo il nuovo Patto sull'immigrazione vuole superare il sistema Dublino?

In primis è importante ricordare che il superamento del modello “Dublino” è stato tentato ripetutamente bensì con insuccesso. Come ultimo tentativo si ricorda la riforma proposta nel 2017 in cui si è cercato di abolire il criterio del primo paese di arrivo sostituendolo con forme di solidarietà obbligatoria in base al PIL e alla popolazione. Tale proposta ha visto una massiccia opposizione degli Stati Membri che ne ha causato il naufragio.

Il nuovo Patto sull’immigrazione di Von der Leyen invece introduce un meccanismo di solidarietà che si attiva solo in due situazioni. In altri termini, uno Stato di frontiera potrà richiedere l’aiuto degli altri Stati membri solo nel caso di una situazione di pressione migratoria o di vera e propria crisi. Nel primo caso, gli Stati membri sono obbligati a contribuire attraverso la ricollocazione su base volontaria e cioè accogliendo una parte dei migranti, oppure attraverso ciò che viene chiamato “return sponsorship”. In questo modo, uno Stato membro (non di frontiera) esercita la solidarietà attraverso l’organizzazione e la messa in pratica di rimpatri di migranti che si trovano in uno Stato di frontiera.

Come terza opzione gli Stati membri possono offrire anche supporto operativo immediato. Nel caso di crisi è obbligatorio scegliere solamente tra le prime due opzioni ovvero le ricollocazioni o i rimpatri sponsorizzati.

La proposta della Commissione prevede anche un rafforzamento degli accordi con i paesi di origine e transito (paesi subshariani oppure paesi come la Libia o la Turchia) per impedire ai migranti di raggiungere l’Europa e una sorta di screening pre-ingresso per decidere rapidamente e secondo determinate discriminanti, come ad esempio la lista dei paesi sicuri, chi rimpatriare senza processo e a chi concedere questo diritto.

La volontà espressa dalla Commissione diventerà realtà?

Assumendo che il sistema Dublino si riferisce a, come detto da Schinas, “un sistema che addossava un onere sproporzionato agli Stati membri di primo ingresso” allora, guardando le decisioni prese nel Patto, risulta difficile pensare che questa volontà possa effettivamente diventare realtà.

L’onere degli Stati di frontiera rimane infatti alla base del funzionamento del sistema anche con questo Patto. In primis, infatti, la non-applicazione del nuovo meccanismo di solidarietà non prevede alcuna sanzione. In questo modo, come già avvenuto in passato, tanti leader, forti di un linguaggio e una visione politica fortemente anti-immigrazionista, non avrebbero nessun interesse nell’attenersi a delle regole che se infrante non prevedrebbero nessuna effettiva punizione. Inoltre, secondo ciò che si è visto fino ad ora, la fiducia riposta nei rimpatri rapidi, oltre ad essere secondo molti una violazione dei diritti dei migranti, è molto spesso impraticabile. I rimpatri, infatti si effettuano in base ad accordi interstatali e sono molto onerosi. Infine, ciò che risulta chiaro è che le condizioni per cui si verifichi una vera solidarietà tra Stati sono molto difficili e troppo dipendenti da interpretazioni contingenti riguardo per esempio cosa si intende per pressione migratoria o situazione di crisi.

Per riassumere, il criterio del primo paese d’ingresso, nonostante la volontà esplicita della Commissione di superarlo, rimarrà in vigore. Il meccanismo di solidarietà sviluppato sembra poggiare su condizioni (la riuscita dei rimpatri e la reale collaborazione tra gli Stati membri) che finora non hanno funzionato e nulla lascia presagire che possano farlo in futuro.

 

Camilla Valerio

CIVITAS EUROPA - Collaboratore esterno

 

 

Note

[1] Spesso risulta infatti molto difficile stabilire e verificare i legami significativi che un migrante può già avere in Europa.

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