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Il ritiro di Biden, l'ascesa di Trump

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Gli ultimi chicchi di sabbia scivolavano dal bulbo superiore della clessidra, al ritmo imposto dalla legge della gravità, mentre Joe Biden scriveva controvoglia la lettera con cui annunciava il ritiro dalla corsa presidenziale.

La più sofferta, come si evince da tutti i giri in cerchio compiuti nel discorso prima di arrivare al punto: due i paragrafi che celebrano gli esiti del suo governo, che lascia la Federazione con «l’economia più forte del mondo» e che ha esteso le cure sanitarie a un «numero record di americani», prendendosi anche cura dei veterani. Biden parla anche di una legislazione senza precedenti in campo climatico e si dice orgoglioso di aver portato la prima donna afrodiscendente al vertice delle istituzioni.

Ma finite le parole, scaduto il tempo, non può più temporeggiare: il candidato dem annuncia la fine della sua corsa verso la Casa bianca. E dice di farlo per «il miglior interesse del mio partito e del mio paese» sottolineando che dedicherà questi ultimi mesi all’adempimento «dei doveri presidenziali per ciò che resta del mandato». Promette di spiegare le sue ragioni nel corso della settimana, ma le ragioni le sappiamo tutti.

Biden è stato messo all’angolo dal suo partito per la debacle in corso durante la campagna elettorale a lui imputabile solo in parte, considerato il disordine interno ai dem.

Qualcuno ha fatto pure delle esternazioni anticipate sul suo conto, come Nancy Pelosi; lo hanno invece sostenuto, o fatto finta di supportarlo, i coniugi Clinton: non più capaci di distinguere la politica dal teatro; viene coinvolta anche la moglie, chiamata in causa per convincerlo a desistere.

Non lo avranno di certo aiutato le cadute sul palco o da quella scala in uscita dall’aereo presidenziale. Poco tollerabile inoltre la sovrapposizione tra nomi, epoche e attori non sovrapponibili a quei livelli del potere: François Mitterrand non è Emmanuel Macron né si può confondere Volodymir Zelensky con Vladimir Putin. Tantomeno durante un summit della Nato.

Poi, nessuno perdonerà mai al presidente degli Stati Uniti di avere sguardo e corpo smarriti durante le occasioni importanti come il G7, quando Giorgia Meloni lo prese per mano come badante che aiuta un anziano. Così la legge della gravità diventa anche legge di vita. E non risparmia neppure colui che, per ruolo o per luogo comune, si ritiene sia l’uomo più potente del mondo.

Non ne era però del tutto convinto, Biden, a lasciare lo scettro. Doveva esserci, a suo avviso, una via di mezzo tra la campagna di delegittimazione agita da una stampa vorace e bramosa di notizie e la propria condizione; uno spazio di manovra per restare in partita, per non darla vinta al candidato repubblicano. Ma così non è andata. Il tempo era scaduto.

Era diventata una questione più personale che altro, con Trump, su cui erano proiettate tutte le cose avversate da Biden nel corso della sua carriera politica. Il che è in parte comprensibile, laddove Trump si spende per elogiare Xi e Putin ritenendoli «brillanti».

È stato emblematico in tal senso il dibattito tra i due candidati, nel quale Biden è arrivato persino a insultare il suo avversario attorno alla questione dei veterani. «Per Trump sono un gruppo di perdenti e idioti. Mio figlio non lo era: lo sei tu», aveva detto l’allora candidato dei democratici.

Quella volta Trump ha giocato le sue carte attorno alle proprie capacità cognitive, che per qualche strana ragione gli statunitensi riducono alle partite di Golf. «Per riuscirci, devi starci con la testa», aveva sottolineato Trump vantandosi dei propri successi sportivi e insinuando l’incapacità del proprio avversario: «non è in grado di colpire la pallina per più di 50 metri, non sa rispondere alle domande».

Ha voluto segnare così le distanze dal suo rivale, giocando il proprio consenso attorno alla propria maschilità e forza, anche bruta, di resistere alle avversità. Lo ha dimostrato in quei pochi secondi dopo l’attentato di sabato 13 luglio, rialzandosi – con il viso ancora insanguinato – ed elevando il pugno destro al grido «Fight, fight, fight».

Ecco qui il nuovo slogan, recentemente ripreso alla convention di Milwaukee dal candidato in persona che si è detto pronto a sfidare anche la morte. Ecco anche la sua foto, mentre si rialza, che fa il giro del web come nuova icona devozionale in un Paese che di martiri non ne vuole sapere, ma preferisce gli eroi.

E lo sapeva bene l’ex-imprenditore, a cui sarebbe bastato il singolo gesto per vincere l’elezione in un Paese che con migliaia di protocolli cerca di nascondere il proprio debole per l’emotività. Un Paese in cui non c’era più posto per Biden: perché la fragilità non eccita nessuno, ma ricorda la caducità umana. Non la si vuol vedere.

Lo sanno le migliaia di vittime del Fentanyl, che dal 2020 al 2022 sono arrivate a 200mila; coloro che cascano nel braccio della morte, con circa 2mila persone che attendono la propria esecuzione; i 46,2 milioni di poveri che hanno visto l’altra faccia del sogno americano. E si potrebbe andare avanti con gli afrodiscendenti, i deportati e altre categorie indesiderate nella società americana.

E quindi: se la fragilità non è ammessa tra i cittadini, men che meno nel primo cittadino a cui è permesso quasi tutto tranne che fallire nell’ostentazione del vigore.

Così, l’elezione alla Casa bianca si gioca attorno a una questione di virilità, più che di lucidità, consuetudinaria a Washington: almeno dalla presidenza di Frank Delano Roosevelt, che dovendo gestire le grandi crisi del Novecento – ossia la Grande depressione e la Seconda guerra mondiale – non poteva mostrarsi all’opinione pubblica in sedia a rotelle.

La vicenda coinvolse persino i Servizi segreti, che procedettero a requisire e distruggere tutte le immagini scattate dai giornalisti al presidente in sedia a rotelle. Era pervenuta anche ai giornalisti la richiesta di non fotografare il presidente in uno stato di «disabilità o di debolezza». Roosevelt a sua volta imparò a restare in piedi, avvalendosi da ogni mezzo possibile, come scrisse lo storico Hugh Gregory Gallagher.

Ebbene, quei tempi sono passati. È tuttavia rimasta l’abitudine di associare la salute, e lo stato di forma, del presidente a quello dell’intera Federazione. Una prospettiva confermata anche nella vittoria di John Fitzgerald Kennedy dinanzi a Richard Nixon, che fu praticamente sigillata al dibattito tenutosi il 26 settembre in televisione e che fu sintonizzato da 76 milioni di statunitensi. Allora a vincere fu il fascino, più che i contenuti: il carisma e l’energia di Kennedy si imposero senz’altro sul disagio e la rigidità di Nixon.

Non si tratta dunque di un fenomeno imputabile a Trump, ma di un atteggiamento insito nella politica statunitense – in una versione più rozza e grossolana, se volete – che ha in qualche modo influenzato il resto dell’emisfero americano.

Lo si chiamerebbe populismo, se impiegassimo un concetto mainstream del lessico politico. Meglio però ammettere che della politica statunitense, in Italia, si è capito poco o niente.

Per il resto: cascano anche per noi gli ultimi chicchi di sabbia dalla clessidra mentre inevitabilmente diventiamo sempre più come loro, sempre più votati all’immagine e non al contenuto, preferendo l’emotività alla realtà.

Considerata infine la posizione subalterna in cui si trova la Penisola, toccherà restare informati su quanto avviene negli Stati Uniti. Almeno da qui a novembre. Non per sapere che cosa sarà di loro, fin troppo lontani, ma per capire cosa sarà di noi qualora il prossimo presidente dovesse cambiare idea, ad esempio, sui rapporti commerciali con l’Europa o sulla Nato.

Stefano Soler Tamburrini

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