Il genocidio di Srebrenica, il momento più drammatico della guerra di Bosnia - Parte uno
Srebrenica resta ferma nel tempo. È da venticinque anni che le ferite della guerra non la lasciano ripartire. La città si rialza puntualmente una volta all’anno, ogni 11 luglio, per commemorare i propri figli. Ormai abituata al turismo della morte, ogni estate essa accoglie migliaia di persone che tornano per ricordare le vittime di un genocidio che le autorità serbe non riconoscono come tale. Tradita, maltrattata e dimenticata, Srebrenica rappresenta una contraddizione nel cuore dell’Europa pluralista e, come dichiarato da Kofi Annan, un peso sulla coscienza delle Nazioni Unite.
Srebrenica era stata sotto assedio per ben due anni. Nella guerra di Bosnia, la città rappresentava un’enclave a maggioranza musulmana circondata da serbo-bosniaci. Attraverso la risoluzione 824, l’Onu l’aveva dichiarata Zona Protetta insieme alle città di Sarajevo, Tuzla, Žepa, Goražde, Bihać dichiarando inoltre, con la risoluzione 836, che la loro tutela, protezione e assistenza sarebbero state garantite attraverso l’uso della forza.
Tuttavia, la protezione dell’Onu si sarebbe rivelata insufficiente. Il 9 luglio 1995 le truppe dell’Esercito serbo-bosniaco, sostenute dal gruppo paramilitare “gli Scorpioni”, iniziarono ad attaccare la città di Srebrenica occupandola due giorni dopo. Invasi dal senso di impotenza, i soldati dell’UNPROFOR (United Nations Protection Force) non intervennero per respingere l’attacco. In effetti, la cosiddetta area protetta era stata affidata a 800 caschi blu olandesi scarsamente armati. I maschi con età comprese tra i 12 e 77 anni vennero separati dalle donne, dai bambini e dagli anziani presuntivamente per essere interrogati; ma in realtà furono uccisi e sepolti in fosse comuni.
Il massacro, che ebbe un saldo di 8.732 morti, tra cui due peacekeeper, fu compiuto con l’obiettivo di distruggere i «bosgnacchi», gruppo etnico costituito dai discendenti delle popolazioni balcaniche che si sono convertite all’Islam durante il periodo Ottomano. Oltre alle vittime, la violenza in Srebrenica ha prodotto più di 47.000 sfollati (da Srebrenica e Žepa) e circa 700 rifugiati in Serbia. Riconosciuto come il primo genocidio avvenuto in Europa dopo la Seconda guerra mondiale, il massacro di Srebrenica rappresenta il culmine della guerra bosniaca, la più sanguinosa delle guerre jugoslave.
Con una durata di tre anni, otto mesi, una settimana – dal 6 aprile 1992 al 14 dicembre 1995 – la guerra di Bosnia si lasciò alle spalle oltre 90.000 morti, di cui la maggior parte bosgnacchi.
Sentimenti nazionalistici incrociati: indipendenza bosniaca e reazioni
In un contesto caratterizzato dall’imminente scomposizione della Jugoslavia, la Bosnia ed Erzegovina si rivelava uno Stato profondamente multietnico. Il censimento del 1991 aveva rilevato che il 44% della popolazione si dichiarava musulmana, il 32,5% serba, il 17 % croata e solo il 6 % jugoslava. Un anno prima, nel 1990, ci furono le prime elezioni multipartitiche. L’anticomunismo era l’unico sentimento che univa i partiti profondamente divisi nei loro programmi. Ne derivò una divisione di poteri fondata su criteri etnici che diede la presidenza della repubblica a un musulmano, quella del parlamento a un serbo e quella del governo a un croato.
Questo fragile equilibrio sarebbe durato poco. Esattamente fino al 15 ottobre 1991, quando il parlamento bosniaco – sulla scia della dichiarazione di indipendenza croata – emanò un memorandum sulla riaffermazione della sovranità della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina. La fazione serbo-bosniaca del parlamento lo ritenne incostituzionale in quanto erano necessarie garanzie procedurali e i due terzi del parlamento per tali questioni.
La Commissione arbitrale della conferenza per la pace in Jugoslavia dichiarava, l’11 gennaio 1992, che l’indipendenza del Paese sarebbe avvenuta solo tramite referendum. Quattordici giorni dopo, il 25 gennaio 1992, il parlamento chiese il referendum per il 29 febbraio e il 1° marzo. I serbi invitarono all’astensione e la partecipazione fu del 63,7% con più del 90% dei voti in favore dell’indipendenza. In segno di protesta, i serbi istituirono posti di blocco mentre il parlamento bosniaco dichiarò l’indipendenza il 3 marzo 1992 ricevendo il riconoscimento internazionale un mese dopo.
Ma anche i serbo-bosniaci tennero un loro referendum dopo aver abbandonato il parlamento di Sarajevo per costituire l'assemblea del popolo serbo a Banja Luka. L’esito del referendum fu favorevole all’unione di Serbia e Montenegro alla Federazione Jugoslava. Dal titolo “Per l'attività e l'organizzazione degli organi della popolazione serba in Bosnia Erzegovina in circostanze eccezionali”, i serbo-bosniaci produssero un documento che prevedeva la presa di potere in ogni località del Paese. A tal fine, sarebbero stati arruolati “lealisti serbi” a sostegno dell’esercito jugoslavo. La Repubblica del Popolo Serbo di Bosnia venne proclamata il 9 gennaio 1992 e venne dichiarata parte dello Stato federale jugoslavo.
Le tensioni incrementarono anche per l’attivismo croato. Quest’ultimo estese un ramo dell’Unione democratica croata in Bosnia dove, Il 18 novembre 1991, fonderà la Comunità croata dell’Erzeg-Bosnia.
Si configurarono così almeno due governi paralleli che, sotto spinte identitarie, si contendevano lo stesso territorio. Tentativi di pacificazione come il piano Carrington-Cuteiro della Comunità Europea si rivelarono insufficienti. L’utilizzo di criteri etnici per un’eventuale condivisione dei poteri era impossibile all’inizio della guerra dato che le zone multietniche erano maggioritarie. Dopo un incontro con l’ambasciatore statunitense Zimmerman, Itzebegovic – firmatario per i musulmani – ritirò la sua firma dall’accordo.
Queste divisioni furono accompagnate da scontri violenti. Ad esempio, nel secondo giorno del referendum sull’indipendenza, Ramiz Delalic, membro delle forze speciali, sparò su un corteo nuziale serbo uccidendo il padre dello sposo. Si sollevarono così delle barricate a Sarajevo e in diverse città. Gli scontri armati continuarono e l’affidamento della città a pattuglie miste non fu sufficiente. Un altro evento tragico accadde il 26 e il 27 marzo quando serbi e bosniaci attraversarono il fiume Sava massacrando 60 civili serbi. Si avviarono così importanti scontri armati. Proteste come quella del 5 aprile a Sarajevo, Mostar e altre città della Bosnia non bastarono per fermare l’escalation di violenza.
Sarajevo venne bombardata nel maggio 1992 e furono distrutti gli edifici dell’ufficio postale principale e della presidenza bosniaca. Alija Izetbegovic venne arrestato in aeroporto al suo ritorno da Lisbona. Poi venne rilasciato in cambio di un gruppo di soldati dell’esercito jugoslavo. I bosniaci musulmani invece attaccarono, in via Dobrovoljacka, i soldati jugoslavi uccidendone 42, ferendone 71 e imprigionandone altri 215. Sarà poi firmato l’accordo di Graz tra i leader mussulmani, croati e serbi ai primi di maggio 1992. Due mesi dopo, i leader dell’Unione democratica croata dichiararono autonoma la Repubblica Croata dell’Ezerg-Bosnia.
Il Consiglio di Sicurezza dell'Onu e i diversi fronti
La complessità del conflitto indurrà a un’estensione del mandato delle UNPROFOR in Bosnia. Custodire l’aeroporto di Sarajevo, proteggere la popolazione civile e gli aiuti umanitari furono alcune delle mansioni dei caschi blu. Il loro intervento si sarebbe rivelato insufficiente nel contrastare la magnitudine di una guerra che ha fatto ricomparire i fantasmi della pulizia etnica, dei campi di concentramento e di una violenza sproporzionati ai danni della popolazione civile.
La Bosnia orientale fu l’epicentro di una campagna di pulizia etnica in cui le forze serbe attaccarono la popolazione civile non serba. I civili venivano catturati e spesso uccisi. I superstiti venivano condotti in campi di concentramento e lo stupro ai danni delle donne divenne una pratica ricorrente in questa guerra. Sempre nel 1992 vengono instaurati i campi di lavoro nella fabbrica di Keratem dove, tra maggio e agosto, furono imprigionate un totale di 3.334 perone di cui 3.197 erano musulmani. Le forze croate sferrarono un attacco ai danni della popolazione civile bosniaca di Prozor e la caduta di Jajce per mano dei serbi comportò l’espulsione dei bosniaci e dei croati dalla città.
Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu reagirà nel febbraio del 1993, dopo che i serbi uccisero il vice primo ministro della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina Hakija Turajlic. Attraverso le risoluzioni 808 e 816, il Consiglio decise l’istituzione del Tribunale internazionale – formalmente istituito dalla risoluzione 827 – che avrebbe perseguito i responsabili dei crimini contro l’umanità commessi durante il conflitto e l’istituzione di una no-fly zone sulla Bosnia da parte della Nato.
Nel mese di maggio, il 96% dei serbi si espresse contro il piano Vance-Owen mentre il conflitto tra croati e musulmani raggiungerà un’escalation con il bombardamento della città di Gornji Vakuf, località situata nella valle del Lašva. Località che, tra maggio 1992 e marzo 1993, era stata sottoposta a una pulizia etnica da parte delle autorità della Repubblica croata dell’Erzeg-Bosnia. Nella valle, la pulizia etnica – di cui l’ultimo atto fu il massacro di Ahmići – ha causato la morte di 2000 musulmani.
In Erzegovina, l’Erzeg-Bosnia croata prese il controllo di ampie porzioni del territorio. Musulmani e serbi vennero emarginati e rimossi da ogni incarico pubblico. Tale esclusione avveniva anche durante la distribuzione degli aiuti umanitari alla popolazione. Nel 1993 forze croate ebbero la meglio su quelle musulmane nei villaggi di Sovici e Doljani aprendosi strada verso Jablanica. L’avanzata sarebbe stata fermata da un cessate il fuoco.
A Mostar invece, i serbi erano stati eliminati e il territorio fu diviso in due parti: quella occidentale dominata dai croati e quella orientale dove i bosgnacchi erano concentrati. L’attacco croato era iniziato il 9 maggio 1993 controllando gli accessi stradali e negando l’entrata alle organizzazioni internazionali. Il lato orientale venne bombardato. Gli sfollati bosgnacchi occuparono la parte occidentale. Solo attraverso l’operazione Neretva ’93, le forze bosniache riuscirono a porre freno all’assedio massacrando però dei civili croati. Il ruolo delle UNPROFOR venne ulteriormente ampliato al fine di proteggere i civili.
Nella seconda parte dell’articolo faremo il resoconto della seconda parte della guerra, che ha visto l’intervento della Nato e il genocidio di Srebrenica. Nella conclusione ci sarà spazio per alcune considerazioni sull’assetto istituzionale post-bellico della Bosnia-Erzegovina e sull’inconsistenza della diplomazia europea.
CIVITAS EUROPA - DIVISIONE RELAZIONI INTERNAZIONALI
Estefano Soler
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