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Guerra, il respiratore artificiale di Netanyahu

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C’è una parola che negli ultimi mesi i media, per riferirsi alla guerra di Gaza, hanno ripetuto fino allo sfinimento. Da quando Ansar Allah ha iniziato ad attaccare le navi mercantili transitanti per lo stretto di Bab al-Mandab i mezzi d’informazione hanno messo in guardia sul rischio di escalation, un anglicismo ormai diventato insopportabile che sta a significare l’allargamento su scala regionale della guerra che contrappone Israele all’Iran e ai suoi alleati. Gli avvertimenti si sono fatti sempre più insistenti, specialmente a partire dallo scorso 1° aprile, quando Israele bombardò il consolato iraniano di Damasco.

Alla fine, il tanto temuto allargamento della guerra è arrivato. Il 27 settembre lo Stato Ebraico ha ucciso Hassan Nasrallah, il capo di Hezbollah, e poi, il 1° ottobre, ha invaso il Libano. L’Iran, vedendo il suo principale alleato sotto attacco, non ha esitato a rispondere: nel giorno dell’inizio dell’invasione del Libano la Repubblica Islamica ha lanciato un attacco missilistico contro Israele, in buona parte annullato dal sistema di difesa antiaerea Iron Dome.

Dopo Hamas, tocca ad Hezbollah. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non poteva cogliere l’occasione del primo anniversario dell’attacco di Hamas per celebrare la vittoria a Gaza. Infatti, sebbene la Striscia sia stata ridotta a un cumulo di macerie e numerosi dirigenti di Hamas siano stati assassinati, ben 101 ostaggi sono ancora nelle mani dei terroristi mentre il governo israeliano non ha alcun piano per la gestione postbellica di Gaza.

Netanyahu è un politico cinico e spregiudicato disposto a tutto pur di rimanere al potere. Allargare la guerra al Libano è una mossa politica che serve anche a far dimenticare ai cittadini israeliani i fallimenti della campagna militare di Gaza. Infliggendo un colpo durissimo a Hezbollah, il più temibile degli alleati dell’Iran, Netanyahu punta anche ad aumentare il suo consenso popolare, nel tentativo di riabilitare la sua figura macchiata dall’onta del 7 ottobre. Da questo punto di vista, il fatto che l’allargamento della guerra sia avvenuto a ridosso del primo anniversario dell’attacco di Hamas non è casuale.

Il premier israeliano, facendo uso di una raccapricciante retorica reazionaria, ha detto che l’obiettivo della sua guerra è quello di creare un nuovo equilibrio regionale. Qui sorge un primo problema: la guerra distrugge, non crea nulla. Al massimo la distruzione lascia spazio a dei vuoti che presto o tardi verranno riempiti, forse da soggetti anche peggiori di quelli che c’erano prima.

La vittoria totale a cui ambiscono Netanyahu e gli estremisti che compongono la sua maggioranza di governo è irraggiungibile. Per un motivo molto semplice: la vittoria totale, ovvero l’eliminazione di tutti gli attori che minacciano la sicurezza nazionale israeliana, implica una violenza talmente grande e distruttiva che Israele verrebbe isolato dalla comunità internazionale, persino dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Decisamente più fattibile è sferrare un colpo quasi mortale a Hezbollah, distruggendo le sue infrastrutture ed eliminando i suoi dirigenti. Riuscire in questo intento sarebbe comunque un importante successo politico per Netanyahu, ma siamo ben lontani dal raggiungimento della vittoria totale.

Israele non sta combattendo contro Hamas, contro Hezbollah o contro l’Iran. Israele sta combattendo contro un’idea, ovvero l’idea che lo Stato ebraico sia un nemico che vale la pena combattere per via dell’ingiustizia storica che sta infliggendo al popolo palestinese. Per vincere una guerra contro un’idea le armi sono inutili. Servono coraggio, lungimiranza e creatività politica.

Finché Israele occuperà Gerusalemme Est, la Cisgiordania e la striscia di Gaza, finché Israele si rifiuterà di riconoscere il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, ci saranno nemici disposti a combatterlo. Una volta c’erano gli Stati arabi, adesso ci sono l’Iran e i suoi alleati. Se la Repubblica Islamica ed Hezbollah dovessero scomparire, il vuoto da loro creato verrà riempito da soggetti ugualmente ostili allo Stato ebraico. Perfino gli Stati Uniti e i loro alleati chiedono il riconoscimento dell’autodeterminazione dei palestinesi. Pertanto è ragionevole ipotizzare che si oppongano a una vittoria totale israeliana intesa come creazione di uno Stato unico in cui i palestinesi vengono segregati o, ancora peggio, deportati.

Più Israele darà mostra della sua forza militare, più il risentimento nei suoi confronti aumenterà. Netanyahu non può vincere questa guerra. Per quanto il governo israeliano e i suoi sostenitori cerchino di sviare l’attenzione dal problema di fondo, finché il conflitto israelo-palestinese non troverà una soluzione giusta e condivisa lo Stato ebraico vivrà in una condizione di insicurezza perenne.

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