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Guardare all’Europa, non a Trump

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La mattina del 6 novembre 2024 l’Europa si è svegliata in preda alla trepidazione. Vince Donald o vince Kamala? Vince l’incertezza o lo status quo?

Le reazioni dei leader al ritorno di Trump hanno oscillato tra l’acquiescenza e il trionfalismo. Della prima è campionessa Ursula Von Der Leyen, con le sue “calorose congratulazioni”; del secondo, Matteo Salvini, che non ha esitato ad estrarre dall’armadio la cravatta rossa, reliquia di quel 2018 in cui lo scimmiottamento dell’estetica trumpiana lo aveva portato dritto al Viminale.

Paradossalmente, le elezioni statunitensi 2024 sono state molto più partecipate emotivamente di quelle europee del giugno di quest’anno. Il perché è presto detto: il destino dell’Europa, allo stato attuale delle cose, dipende molto di più dalle decisioni formate a Washington che quelle formate a Bruxelles.

Gli anni recenti hanno riportato in auge l’eterna questione dell’autonomia strategica dell’Europa. Il Covid ha mostrato che dipendiamo dalle industrie statunitensi per produrre i vaccini. L’invasione russa ha mostrato - come ce ne fosse bisogno - che l’Europa non ha le capacità industriali e militari per sostenere una politica autonoma, anche quando allineata agli Stati Uniti. L’ascesa vertiginosa dell’IA ha dimostrato gli enormi limiti del sistema economico europeo sul campo dell’innovazione tecnologica.

Con il ritorno di Trump, tutte questioni divengono all’improvviso urgenti, fondendosi allo spettro onnipresente del modello illiberale a cui il neoeletto presidente fa riferimento.

Gli Stati Uniti sono a tutti gli effetti una superpotenza e, quindi, non hanno la possibilità di fare riferimento ad entità esterne per risolvere le proprie crisi. L’illiberalismo, in the land of the free, si traduce in una prospettiva cesaristica della politica: la Repubblica in pericolo necessita dell’uomo forte che la salverà (Trump will fix it è lo slogan che campeggiava sui maxischermi durante il discorso della vittoria a Palm Beach).

L’Unione Europea, al contrario, è un’accozzaglia di stati guidati da classi politiche che nel migliore dei casi peccano di ingenuità, nel peggiore di parassitismo. Alla seconda categoria appartengono gli illiberali europei, che concepiscono il potere come un valore fine a sé stesso, il dialogo democratico come un’inutile complicanza, il dissenso come una sfida ontologica.

Per perpetuare la propria visione non possono contare sulla realtà; quindi, si affidano a benefattori esterni che giustifichino la loro gestione esclusiva di un potere che va anno dopo anno affievolendosi.

L'Unione Europea di oggi non dispone dei mezzi per affrontare la doppia crisi della democrazia e del modello di sviluppo. Si parla da decenni delle riforme che doterebbero l’Unione degli strumenti politici per emanciparsi. Ma il processo d’integrazione è inceppato da tempo e l’attuale Commissione sta rinunciando a proseguire i suoi progetti più rilevanti: fra tutti, la condivisione del debito avviata con Next Generation EU e la transizione ecologica avviata con il Green Deal.

Cosa servirebbe all’Europa? È presto detto.

In primo luogo, l’immediata revisione dei trattati per riformare le modalità decisionali, in particolare la regola dell’unanimità all’interno del Consiglio.

Poi, la difesa: è necessario di un piano industriale e militare che - pur mantenendo le attuali alleanze - permetta all’Europa di far valere la propria voce comune in politica estera.

C’è poi la questione annosa della capacità di spesa del livello decisionale comunitario. Un budget europeo rimpolpato dall’emissione debito comune, in linea con quanto incominciato nel 2021, è presupposto fondamentale perché gli interventi pubblici siano incisivi. Come corollario, i poteri della Banca Centrale Europea andrebbero equiparati a quelli della FED americana.

Infine, il Green Deal andrebbe recuperato integralmente nei suoi principi, ragionando su un sistema d’integrazione dell’energia in tutto il continente, per una leadership europea della transizione verde.

È possibile fare tutto questo in due mesi, prima della nuova era Trump? No. Ma è necessario eliminare le scuse e gli alibi dall’equazione.

Gli euroscettici, le destre, l’unanimità: nulla di tutto questo sdogana lo stallo e l’inedia come valide alternative politiche. Perché la politica richiede pragmatismo, ma anche visione: si deve mantenere il contatto con la realtà anche quando questa presenta sfide così grandi da sembrare irreali.

Cosa possono fare le istituzioni, quindi, allo stato attuale delle cose?

Serve una “divaricazione” delle istituzioni comunitarie rispetto a quelle intergovernative. Il Parlamento ha più volte dimostrato come la UE non sia un blocco unico, fermo in attesa degli Stati membri. I diretti rappresentanti delle cittadine e dei cittadini europei hanno anticipato più di una volta i piani degli statisti e della Commissione stessa.

Poi, a rigor di trattati, senza gli Stati non si fa nulla. Però è necessario incominciare a sollevare il problema. La questione politica dell’integrazione non va affrontata con libri bianchi e piani su carta, ma va dibattuta nell’arena politica e resa accessibile all’opinione pubblica.

Le europee e gli europei non sono utenti. La cittadinanza è distinta dal consumo e sempre lo sarà, a meno di negare l’essenza stessa della partecipazione democratica. Per questo motivo, le forze politiche che si incaricano di rappresentarli devono sentire su di sé la responsabilità di affidare questioni complesse, apparentemente irrisolvibili, al giudizio e al dibattito all’interno della comunità.

La risposta democratica a chi, attraverso le istituzioni liberali, vuole indebolire la democrazia stessa, è più partecipazione. Per smussare gli angoli dei problemi, e scoprire soluzioni nuove (ma condivise) alle enormi sfide del nostro tempo.

Con una prospettiva europea al futuro che si distingua da quella americana.

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