Groundhog Day, ovvero: l’eterno ripetersi degli stessi errori
Nel 1993 uscì Groundhog Day, arrivato in Italia con il titolo di Ricomincio da capo, in cui un meteorologo televisivo di nome Phil Connors, interpretato dal mitico Bill Murray, si ritrova a rivivere continuamente lo stesso giorno: il Giorno della Marmotta, appunto.
Nello stesso anno, la neonata Unione Europea usciva dall’insidiosa palude del procedimento di ratifica del Trattato di Maastricht e cominciava, fiduciosa, a guardare al radioso futuro della nuova Europa Unita. Dopo quasi trent’anni, si può serenamente affermare che l’avvenire prospettato non si sia materializzato. Non solo: l’Unione si trova ancora ad affrontare le stesse fragilità e contraddizioni di allora, bloccata in un eterno presente esattamente come il Connors del film, fino a quando non riuscirà a sciogliere i nodi alla fonte dei problemi che ne ostacolano il proseguo del cammino.
In Groundhog Day, la storia si conclude con un’inevitabile e assicurato lieto fine, tipico delle commedie americane degli anni Novanta, epoca di benessere e fiducia nel futuro che spinse Francis Fukuyama a proclamare la “Fine della Storia”.
Per la UE, la storia, tutt’oggi, non si è affatto conclusa. L’errore alla radice è avere dato per scontato un lieto fine anche per il processo di integrazione, considerato alla stregua della legge di gravitazione universale: un’inevitabilità cosmica che poteva svilupparsi solo in un unico modo.
Un ottimismo tanto molle quanto fuori luogo, considerati i precedenti storici di aspre battaglie tra gli stati membri, restii a cedere porzioni di sovranità o a percorrere la strada della collaborazione quando ciò cozzava, in maniera reale o presunta, con l’interesse nazionale.
Da allora poco o nulla è cambiato di ciò che conta davvero. La dimensione nazionale ed il metodo intergovernativo sovrastano ancora la dimensione europea ed il metodo comunitario. La Commissione è lasciata sola nel mezzo del fuoco incrociato, mentre i leader nazionali si nascondo e attendono il fallimento di politiche vuote (perché svuotate della necessaria autorità) per accanirsi su di un facile capro espiatorio, nel rito tribale della lotta per il consenso.
Ed intanto, decennio dopo decennio, nuove tempeste si sono abbattute sull’Europa. Sono state affrontate sempre nello stesso modo, assecondando le stesse divisioni tra membri, sulla scia di compromessi che tamponano ma non risolvono, seguiti da qualche foto di rito e un senso di ingiustificato sollievo, prima del ritorno allo status quo. La frase che racchiuderebbe la filosofia dietro questa danza precaria e immobilista è: “Anche questa volta l’abbiamo scampata”.
L’effetto Giorno della Marmotta è tanto evidente quanto ignorato. L’ultimo esempio non va cercato nel passato, ma nell’attualità. La Storia ha calciato la porta del Presente per ben due volte in questi primi Anni Venti del XXI Secolo. Nel 2020 la reazione europea alla pandemia ha inizialmente ricalcato il copione, poi, compresa la scala del disastro che si parava innanzi, gli stati membri hanno appoggiato la Commissione nella creazione del Recovery Fund e, per la prima volta su scala significativa, l’UE ha reperito risorse sui mercati come comunità coesa, un soggetto economico unico. Emettendo, di fatto, debito comune, l’Europa ha compiuto un progresso in ritardo di dieci anni, subito relegato a notizia di secondaria importanza dall’aura informale che gli si è voluta attribuire.
In questo tremendo 2022, la lezione del Recovery Fund è già andata dispersa. Davanti alla crisi energetica, la guerra alle porte, il rischio di escalation, l’europeo si sveglia e per lui è di nuovo il Giorno della Marmotta. Le leadership nazionali sono coese sulle sanzioni e sul sostegno militare all’Ucraina (con l’eccezione, per nulla “eccezionale”, anzi alquanto irrilevante e poco sorprendente, dell’Ungheria), ma non intraprendono decisivi passi verso il consolidamento della Politica Estera e di Sicurezza Comune e dell’integrazione tra le forze armate. I membri sono poi profondamente divisi sul tema del tetto al prezzo del gas: c’è chi vuole conservare una posizione di vantaggio, chi ha le risorse per affrontare da sola la crisi nel breve periodo, chi non è disposto a sobbarcarsi nuovamente i costi della miopia di altri stati dell’Unione. Tutte motivazioni razionali, se rapportate alla limitata logica ottocentesca dell’interesse nazionale, ma che scompaiono nel mare dell’insensatezza una volta confrontate all’immensa scala del problema da risolvere.
La crisi energetica si aggiunge alla lunga coda di problemi globali che, contro ogni evidenza, i membri della UE si sono ostinati ad affrontare ognuno per sé, almeno in prima battuta. La speranza è che, in questo ottobre fitto di appuntamenti istituzionali, fra tutti il Consiglio Europeo del 20 ottobre, si attraversi in fretta la fase di riconoscimento del problema, per giungere alla soluzione già presente nei piani della Commissione da giugno 2022.
Il piano energetico che comprende il tetto al prezzo del gas deve essere approvato a tutti i costi prima dell’inverno. E, probabilmente, il Consiglio riuscirà a trovare un accordo in tempo. Ma la questione permane: ogni decisione rilevante deve fare i conti con una struttura istituzionale ancora incompleta, prima di essere attuata. Laddove a decidere sono i 27 capi di Stato e di Governo, e non il Parlamento Europeo democraticamente eletto e la Commissione che ne è espressione, non ci può essere tempestività né unità di intenti, non ci può essere “l’Unione nella diversità” che sta alle fondamenta della costruzione europea. E’ tempo di riconoscere che esiste un vero e proprio interesse europeo che ne accomuna i membri, perché dalla cura di tale interesse dipende il futuro dell’Europa e dei suoi cittadini.
Serve un ripensamento radicale che parta dalle leadership nazionali, se ne sono capaci, e che origini una proposta di riforma dell’impianto istituzionale europeo e del metodo comunitario.
Altrimenti, all’indomani della crisi, affrontata con l’ennesima soluzione transitoria, ci risveglieremo e sarà nuovamente il Giorno della Marmotta.
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