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Fertility gap. Storia di una generazione in divenire

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L'affanno mediterraneo di una genitorialità sempre più difficile. Storia di una generazione in divenire.

Che i giovani d’oggi non abbiano voglia di fare niente, tantomeno mettere su famiglia, è ormai fra i più popolari tormentoni da ombrellone. Può sembrare uno dei tanti discorsi che si sentono abbozzati sotto i portici o nelle pause caffè del dopopranzo, una di quelle polemiche che si monta e si spegne da sola alla fine del cenone di famiglia della domenica. Eppure questa narrativa ricorrente nel discorso comune e nell’immaginario collettivo contemporaneo del nostro paese, di una generazione a cui non importa, che non ha voglia né tempo di ancorarsi a concetti profondamente radicati e radicanti come quello di famiglia, risulta in fondo estremamente problematica - poiché problematico, per portata e potenziale, è l’assunto implicito: che la causa del cambiamento demografico nel nostro paese, e in particolare per quanto riguarda il calo dei tassi di fecondità, sia allora fondamentalmente attribuibile ad un cambiamento valoriale generazionale; dunque la responsabilità (ergo, la colpa) risiede nei portatori di tale cambiamento. Una simile analisi oscura pericolosamente quelli che sappiamo oggi essere i fattori strutturali-istituzionali alla base della denatalità mediterranea, deresponsabilizzandoci nell’impotenza ed incoraggiando quindi l’inazione.

Le spiegazioni del fenomeno della denatalità ai minimi storici si sono principalmente concentrate sul processo di mutamento valoriale e culturale che ha interessato le società occidentali negli ultimi trent’anni, in particolare per quanto attiene al ruolo della donna nella sfera pubblica e privata, contribuendo a consolidare una visione parzialmente negativa della donna lavoratrice, in quanto collettivamente ritenuta responsabile del persistente calo delle nascite (Boeri et al. 2005). Si è andata affermando, in breve, “una credenza comune che le donne moderne stiano perdendo interesse nella famiglia e nei bambini” (trad. da Esping-Andersen 2002, 81).

Eppure, oggigiorno, i paesi in cui si registrano i tassi di fertilità più bassi (Italia, Spagna e Grecia) presentano al contempo i minori tassi di partecipazione femminile al mercato del lavoro nel quadro europeo e nordamericano, mentre i paesi con i Tft più elevati (Danimarca, Svezia e Francia) vantano al contempo una più sostenuta partecipazione femminile al mercato del lavoro (database Eurostat 2020; 2021).

Ebbene, in controtendenza al ricorso comune al tasso di fertilità totale come diretta traduzione in termini quantitativi dei desideri - e dunque dei valori - degli individui, parrebbe oggi più opportuno l’utilizzo di un altro indicatore, le intenzioni di fertilità, rappresentanti una traduzione ancor più fedele del panorama valoriale di una data società. Ebbene, i valori registrati per i due indicatori non risultano affatto simili: in Italia, infatti, se le intenzioni di fertilità superano i 2 figli medi per donna - quasi raggiungendo la soglia naturale di sostituzione della popolazione in grado di assicurare il ricambio generazionale (pari a 2,1 figli per donna) - la realtà concreta è tuttavia quella del terzo Tft più basso d’Europa nel 2020, pari a 1,24. (database Eurostat 2020; 2021).

La tabella indica il Tasso di fertilità totale (Tft) nei 27 paesi dell'Unione Europea nel 2020.

Questo scarto, noto con il nome di Fertility Gap, corrisponde alla differenza esistente a livello aggregato fra il numero medio di figli desiderati per donna (intenzioni di fertilità) e il numero medio di figli effettivamente avuti per donna (tasso di fertilità finale) in un determinato paese o contesto di riferimento (Beaujouan e Berghammer 2019). Se in Europa i tassi di fertilità totali risultano generalmente abbastanza bassi, è infatti preoccupante osservare che le intenzioni di fertilità tendono ad assestarsi su livelli assai prossimi alla soglia naturale di sostituzione demografica: molto spesso, dunque, le intenzioni di fertilità alte non si traducono in realtà. Tutto ciò suggerisce quindi la necessità di sovrapporre alla chiave di lettura valoriale un’attenta analisi critica degli assetti istituzionali ostacolanti di fatto il raggiungimento della fertilità desiderata. La disoccupazione giovanile e la sindrome del posticipo; la diffusione e la qualità del lavoro part-time; la natura e la durata dei congedi, e il compenso corrisposto durante i medesimi; la presenza, qualità e copertura dei servizi all’infanzia pubblici / privati, e la presenza e disponibilità di carer informali; infine, l’esistenza e la consistenza di benefit e trasferimenti a supporto del lavoro domestico e di cura - queste sono solo alcune delle principali dimensioni coinvolte nel determinare strutturalmente i percorsi di vita e di genitorialità contemporanei (Boeri et al. 2005).

L’urgenza di un approccio di policy che non solo incoraggi, ma permetta alle giovani generazioni di tradurre in realtà le loro intenzioni di fertilità, emerge con spiccata nitidezza quando si ricorda la preoccupante situazione demografica occidentale odierna. Un ciclo di duratura e bassissima fecondità, infatti, minaccia la sostenibilità delle società europee: come sottolineato dalla Commissione Europea nel Rapporto sull’impatto dei cambiamenti demografici (2020), un’Europa più vecchia, con una forza lavoro meno numerosa, porterà ad un aumento della pressione sui bilanci e sulla finanza pubblica, delineando concrete sfide per il futuro. Il rapporto fra contributori e beneficiari, infatti, va rapidamente riducendosi: nel 2019, vi erano in media 2,9 persone in età lavorativa per ogni persona oltre i 65 anni di età. Nel 2070, le proiezioni prevedono un ulteriore calo di tale valore a 1,7. Le stime prevedono inoltre che il costo dell’invecchiamento in Europa sarà responsabile per il 26,6% del Pil entro il 2070 (ivi, 19).

La rilevanza di tale dibattito all’attualità femminista e al perseguimento dell’uguaglianza di genere non è secondaria. Le scelte, o meglio le decisioni, che si impongono a monte – fra ambizione e sicurezza, fra carriera e figli, fra dipendenza e indipendenza – sono, ad oggi, crocevia intrinsecamente e sproporzionatamente femminili. Attualmente, nella grande maggioranza dei contesti occidentali, diventare ed essere padre implica realmente una mera frazione degli ostacoli e delle difficoltà derivanti dall’essere madre, e ciò tanto in luce dei compromessi fra diversi obiettivi nei percorsi lavorativi e di vita, quanto in termini di reddito, di rischio di povertà, di rischio di esclusione sociale, nonché di esposizione alle conseguenze per la salute psicofisica individuali derivate dall’assetto qui delineato. Uno sguardo alle disuguaglianze di genere attuali che si vuole completo non potrà dunque legittimamente tralasciare o sminuire il ruolo centrale della maternità (desiderata ed effettiva) come importante asse di disuguaglianza la cui complessa risonanza e problematicità rimane tuttora irrisolta.

 

Emma Simonini

 

Bibliografia

 

Beaujouan E., Berghammer C., 2019, The Gap Between Lifetime Fertility Intentions and Completed Fertility in Europe and the United States: a Cohort Approach in “Population Research and Policy Review”, Vol. 38, pp. 507-535.

Boeri T., Del Boca D. e Pissarides C., 2005, Labour Supply and Fertility in Europe and the US in Women at Work. An Economic Perspective, Oxford, Oxford University Press.

Esping-Andersen G., 2002_, A New Gender Contract_ in Esping-Andersen et al. (a cura di), Why we need a New Welfare State, Oxford, Oxford University Press, pp. 68-94.

European Commission, 2020 Report on the Impact of Demographic Change, 2020, Bruxelles.

EUROSTAT, The life of women and men in Europe, 2021.

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