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Dal Donbass alla Libia, i vulcani dormienti della politica internazionale

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Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina, la guerra è onnipresente sui mezzi d’informazione. Sebbene l’attenzione mediatica sia calata rispetto ai primi mesi dell’invasione – l’opinione pubblica non ci ha messo molto ad abituarsi all’impensabile – il conflitto tra Kiev e Mosca continua ad essere al centro del dibattito pubblico. Comunque, a ben vedere, non è la prima volta che il conflitto tra quelle due capitali occupa in pianta stabile le pagine e i siti dei quotidiani e le trasmissioni dei notiziari. Il conflitto russo-ucraino, infatti, ha conosciuto un’ampia copertura mediatica già nel 2014.

Tra le proteste di piazza a Kiev (autunno 2013) e la firma degli accordi di Minsk II (febbraio 2015), con in mezzo l’annessione della Crimea e la fase più intensa della guerra del Donbass, le notizie provenienti dall’Ucraina erano all’ordine del giorno. Poi, dopo la firma dei suddetti accordi, l’Ucraina di punto in bianco è scomparsa dai radar dell’attenzione mediatica.

Riflettere sulla storia della guerra russo-ucraina, quindi, ci porta inevitabilmente a prendere atto del problema dei conflitti dimenticati. L’Ucraina, infatti, ha ospitato per quasi sette anni un conflitto dimenticato. La guerra tra Russia ed Ucraina – vale la pena ribadirlo ancora una volta – non è cominciata il 24 febbraio dello scorso anno, bensì nel febbraio del 2014, quando la Russia ha invaso la Crimea e l’ha annessa. Colpo di mano che seguì il successo dei manifestanti di Euromaidan e la fuga in Russia del presidente ucraino Viktor Janukovic.

Ma la Crimea è stata solo l’inizio. Appena due mesi dopo l’annessione i separatisti filorussi hanno preso il controllo delle sedi dell’amministrazione statale a Donetsk e Lugansk, nel Donbass al confine con la Russia, e hanno proclamato l’indipendenza. Per il governo ucraino i separatisti erano terroristi che attentavano all’integrità territoriale dello Stato. Di conseguenza Kiev ha reagito mandando l’esercito nel Donbass e così è scoppiata la guerra tra il governo ucraino e i separatisti filorussi.

Ma a ben vedere si trattava di una guerra nella guerra, perché quei separatisti erano supportati militarmente dalla Russia, anche se il governo russo all’epoca non lo riconosceva. Infatti i separatisti controllavano alcune parti del confine con la Russia e attraverso quel confine passavano armi, munizioni, veicoli, mercenari. Difatti il famigerato gruppo Wagner ha ricevuto il suo battesimo del fuoco proprio nel Donbass nel 2014.

Poi cos’è successo? Nel febbraio del 2015, dopo dieci mesi di feroci combattimenti, l’Ucraina, la Russia e i separatisti del Donbass, con la mediazione di Francia e Germania, hanno firmato a Minsk un accordo di cessate il fuoco. Non un armistizio, non una pace, un cessate il fuoco. Ciò significa non solo che le dispute alla base del conflitto non sono state risolte – a questo serve una pace – ma che gli eserciti continuavano ad essere schierati l’uno contro l’altro. Sebbene col senno di poi sia facile liquidarli come fallimentari, va detto che gli accordi di Minsk II hanno avuto il merito di aver abbassato sensibilmente l’intensità dei combattimenti nel Donbass.

Intensità che è calata talmente tanto (nonostante le innumerevoli violazioni della tregua) che i più si sono dimenticati che in Ucraina c’era una guerra. A dimostrazione di ciò, numerose testate giornalistiche hanno definito quella del Donbass come la guerra dimenticata d’Europa. E però nell’Ucraina sud-orientale gli eserciti continuavano a rimanere schierati: ogni tanto si sparava, ogni tanto qualcuno moriva. Però non faceva notizia, non se ne parlava. Finché un giorno il governo russo ha deciso di far leva sulla mancata risoluzione della guerra nel Donbass per lanciare l’invasione su larga scala dell’Ucraina.

Giova ricordare, per l’appunto, che il 21 febbraio 2022 la Federazione Russa ha riconosciuto l’indipendenza delle repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk. In sostanza Mosca ha utilizzato le due repubbliche separatiste come casus belli per legittimare l’invasione e in particolare la cosiddetta “liberazione” del Donbass russofono.

Il caso dell’Ucraina ci insegna quindi una lezione importantissima: i conflitti internazionali, per quanto siano ignorati dai media e quindi dall’opinione pubblica, rischiano di riesplodere con brutale violenza anche dopo tanti anni di calma apparente. Da questo punto di vista i conflitti internazionali possono essere paragonati a dei vulcani dormienti, che ci illudono di non essere pericolosi. Con la differenza fondamentale che i primi sono fatti sociali, e pertanto l'unica cosa di cui necessitano per essere risolti è la volontà politica.

Così come quello tra Russia ed Ucraina, tantissimi altri conflitti dimenticati hanno dimostrato di essere in grado di riesplodere. Per rimanere nell’area ex sovietica, pensiamo al conflitto tra Armenia ed Azerbaigian per il controllo del Nagorno-Karabakh. Un conflitto iniziato alla fine degli anni Ottanta, che ha conosciuto la fase di massima violenza all’inizio degli anni Novanta per poi cadere nel dimenticatoio. Salvo degenerare con inaspettata intensità nell’autunno del 2020.

Avvicinandoci all’Italia, guardiamo al Kosovo. I recenti scontri (non a fuoco, per fortuna) tra la minoranza serba e i militari della Nato ci ricordano che a quindici anni dalla proclamazione d’indipendenza il conflitto è ben lungi dal trovare una soluzione. La Serbia, infatti, non riconosce l’indipendenza del Kosovo. Ma Belgrado non è da sola: la questione del Kosovo spacca letteralmente in due la comunità internazionale. Di certo c’è che i Balcani occidentali, nonostante se ne parli troppo poco, continuano ad essere lacerati dai postumi delle guerre degli anni Novanta. Basti pensare anche alle velleità secessioniste di Milorad Dodik, il leader dei serbo-bosniaci.

E che dire dell’Afghanistan? Per tantissimi anni non si è parlato dell’Afghanistan, sebbene gli Stati Uniti e i loro alleati (Italia compresa) occupassero quel paese dal 2001. Poi, quando i talebani hanno preso Kabul e sono tornati al potere, come per magia tutti si sono ricordati che in Afghanistan c’era ancora la guerra.

Infine, ritornando vicini all’Italia, pensiamo alla Libia. Da quando Gheddafi è stato spodestato ed ucciso nel 2011, il paese non ha più ritrovato l’unità. Nel 2019 la rivalità tra le varie fazioni libiche è degenerata nel momento in cui il generale Khalifa Haftar ha tentato di conquistare Tripoli con la forza. Solo l’intervento turco nel 2020 ha infranto i sogni di gloria del generale cirenaico.

Il paese però è ancora diviso: al momento continuano ad esserci due governi rivali, di cui uno, quello di Tripoli, riconosciuto dalle Nazioni Unite. Ma questi due governi sono tali solo di nome. Nell’anarchia prosperano criminali e banditi, che fanno affari grazie ai traffici più spregevoli. Come quello di esseri umani.

In Libia i conflitti dimenticati si incontrano e si alimentano a vicenda. Nel paese nordafricano giungono persone in fuga dai numerosi conflitti dimenticati del Sahel, del corno d’Africa, dell’Africa subsahariana. Nel deserto libico queste persone vengono comprate e vendute da trafficanti di esseri umani diventati ricchi e potenti sfruttando il caos seguito alla rivolta del 2011. I più fortunati sbarcano in Italia. Tanti, troppi, trovano nel Mediterraneo la loro tomba.

La Libia è un caso emblematico poiché dimostra che le conseguenze dei conflitti irrisolti ma dimenticati non rimangono confinate ai paesi in cui questi conflitti accadono. Le persone comprensibilmente scappano e spesso vogliono andare in Europa. Perché nel Vecchio Continente c’è la pace – che noi diamo troppo per scontata – e il benessere. E così quei conflitti che ci sembrano lontani e distanti finiscono per impattare sul nostro quotidiano.

Pensiamo a quante persone sono arrivate in Italia negli ultimi anni. Persone in fuga dalla guerra partite con i barconi dalla Libia e sbarcate nel nostro paese. Poi sono arrivati gli afghani fuggiti dopo il ritorno dei talebani e infine gli ucraini, gli ultimi in ordine di tempo ad essersi aggiunti alla lunga lista di popoli costretti a fuggire dalla violenza e dalla miseria.

 

 

Massimiliano Palladini

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