Covid-19: una gestione anarchica dell’emergenza e qualche prospettiva di cooperazione
Dopo alcune settimane di dibattito e, una volta superata la soglia dei 450.000 casi ufficialmente dichiarati nel mondo, quasi nessuno si è più permesso di sottovalutare la diffusione del Covid-19. Le teorie sull’immunità di gregge e l’arroganza con cui alcuni governi hanno affermato di “non fare come l’Italia” argomentando l’inutilità di “misure draconiane” sono state smentite dai fatti recenti. Il miglior esempio è stato quello di Boris Johnson, il quale dopo aver puntato sul tenere tutto aperto invitando i britannici ad abituarsi a perdere i propri cari, si è piegato alla necessità di decretare il lockdown. Lo stesso era già accaduto in Francia, dove, dopo aver ripetutamente assicurato “non siamo l’Italia” oppure “le misure adottate dall’Italia non hanno prodotto effetto” si sono abituati a vedere un presidente che imita cronicamente i discorsi e le misure di Conte. Misure e provvedimenti restrittivi sono stati adottati anche Germania, dove il virus è arrivato persino a bussare le porte della cancelleria.
Anche negli Stati Uniti, dopo che Mike Pence ha affermato che il rischio di contrarre il virus fosse “basso”, i contagi sono arrivati a oltre 85.000[1]. Questa cifra, pur avendo un’incidenza minore sul totale della popolazione rispetto a casi come quello della Spagna dove i contagi sono più di 57.700 con un saldo di circa su una popolazione di 46.6 milioni, piazza comunque gli Stati Uniti come il secondo Paese al mondo con il numero più elevato di contagiati. La velocità con cui i contagi si sono propagati in Spagna, situano Madrid come una delle città più contagiate in Europa. In effetti, al 27 marzo, i dati vedono la Spagna seconda rispetto l’Italia nella quantità dei casi rilevati.
Ovviamente, tali numeri non sono da considerare come dati esaustivi che ricoprano la totalità casi presenti da Paese a Paese. Fattori come la mimetizzazione del virus in persone asintomatiche o l’incognita sulla quantità di deceduti che sono stati registrati sotto la voce di altre malattie preesistenti nei loro organismi, così come la veloce propagazione di un virus che non attende i tempi della politica e si estende ben oltre la quantità di tamponi effettuata su ogni territorio, lasciano ipotizzare che i contagiati veri siano più di quelli contati.
Questo problema ci pone dinanzi a una correlazione imperfetta tra copertura ed estensione che, di Paese a Paese, non ci permette – almeno per il momento – di capire la propagazione reale del virus. Il caso più eclatante lo si vede in Cina, dove è proprio la censura del regime a farci dubitare sulle cifre reali dei deceduti per il Covid-19. In effetti, prima dell’operazione simpatia con cui Pechino ha inviato i propri aiuti in Italia offrendosi anche come partner sanitario degli altri Stati europei, l’atteggiamento del regime di Xi era stato concentrato nel censurare, reprimere e perseguire chiunque informasse sulla situazione del virus. L’ultimo dubbio a proposito delle cifre ufficiali riguarda quei 21 milioni di cellulari a inizio anno. Un dato che sorprende di più quando si considera che in Cina risulta impossibile per una persona cancellare il proprio telefono e molte attività si fanno tramite questi dispositivi: prima fra tutti, generare un codice sanitario con il quale è possibile spostarsi all’acquisto di un biglietto di treno.
In ogni caso, 21 milioni di cellulari non possono spegnersi di un colpo e senza una motivazione concreta. In base a questa ipotesi, formulata dal giornale The Epoch Times, il drastico calo delle utenze telefoniche – fisse e di cellulare – infonde sospetti sulla cifra reale dei decessi nel territorio cinese.
Questo ci permette di osservare come, sia negli autoritarismi sia nelle democrazie, i numeri reali del virus possono risentire di una certa alterazione dovuta, da un lato, alla mancata copertura di chi ha reagito dopo che il virus si fosse propagato nel proprio territorio e, dall’altro, al doloso occultamento dei numeri reali dei contagi per motivi reputazionali e, cioè, di propaganda politica.
Differenze tra i numeri reali e quelli pubblicati possono ipotizzarsi anche in Francia, dove il governo Macron ha assicurato di non essere in grado di fare tamponi a sufficienza per verificare la quantità reale dei casi. Ma a smentire tali affermazioni ci ha pensato la ricercatrice Marie Claude Potier del Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS) la quale, durante un’intervista mandata in onda da France 24, ha denunciato l’atteggiamento di un governo che potrebbe disporre della quantità di tamponi necessari ma non ha la volontà politica per portare avanti una campagna di controlli a tappeto[2]. Sempre in Francia sta accadendo un dramma che riguarda la scelta di “chi guarire”. Ad esempio, in un centro di accoglienza per anziani a Parigi dove sono già stati riscontrati dei casi positivi è stato deciso di non eseguire dei tamponamenti a coloro che manifestassero dei sintomi, decidendo così di lasciarli a sé stessi. Oltre a trattarsi di un provvedimento teso a scartare e discriminare dei pazienti, questa misura nega in anticipo la possibilità di venire a conoscenza dell’incidenza reale del virus sulla popolazione. Una misura non dissimile è stata adottata negli Stati Uniti, dove almeno 10 Stati federali opteranno per ridurre i costi discriminando tra chi guarire e chi invece no secondo criteri di vario tipo che finiscono, in alcuni Stati, per escludere apertamente i disabili[3].
Essendo i casi rilevati proporzionali ai tamponi effettuati, il caso italiano sembra destinato a rimanere, almeno per un altro po’, il più drammatico di tutti. Su 361.060 tamponi eseguiti fino a mercoledì 25 marzo, il totale dei casi era di 80.539, i guariti 10.361, i deceduti 8.165, mentre i casi attualmente positivi sarebbero 62.013 (dati: Ministero della Salute al 25 marzo). L’emergenza italiana, più delle altre, fa il paio con una situazione economica più delicata rispetto ad altri partner europei. Questo doppio malessere fa sì che l’Italia venga osservata come il malato d’Europa ma, almeno questa volta, i nostri vicini sono consapevoli di essere altrettanto fragili e vulnerabili.
Dopo questa presa d’atto, diversi Stati hanno cominciato a reagire e l’Unione Europea ha cercato di coordinarsi sia sul piano economico sia incentivando la cooperazione tra gli Stati membri, ma la diversità nei ritmi, nei metodi e nei sistemi attraverso cui ogni Stato membro affronta il problema continua a ostacolare il superamento dell’emergenza. Già all’interno della dimensione nazionale, le differenze che presenta il sistema sanitario di una regione rispetto a quello di un’altra rende complicata la gestione del problema ed espone una breccia quasi inconciliabile tra il Settentrione e il Meridione. Una dinamica simile si replica nel territorio europeo e, dal momento in cui un cittadino comunitario che, per variate ragioni, risiede in un altro Stato dell’UE è stato costretto a sottoporsi a delle misure che variano rispetto a delle misure adottate o no dal proprio Paese di origine, esso considererà l’opzione di spostarsi da una parte all’altra per sentirsi al sicuro.
In realtà, la differenza nelle tempistiche e nei modelli di risposta offerti dagli Stati europei di fronte all’emergenza del Covid-19 non può essere attribuita soltanto ai governi attuali, ma essa riscontra radici più profonde nei sistemi sanitari dei vari Stati membri. Se ci fosse stato un maggior coordinamento tra i sistemi sanitari dello spazio comune europeo, il quale è soggetto alla medesima intensità di scambi e interazioni, il problema di ‘cosa può fare ciascuno’ per affrontare un’emergenza che è di tutti probabilmente non si sarebbe posto.
Dal momento in cui si è stati costretti a ‘reagire’ a seconda delle politiche dei singoli Stati, l’Europa è stata sottoposta a uno Stato di anarchia che ha solo complicato le cose. Il fatto che gli italiani bloccati all’interno di uno Stato membro dovessero rientrare in Patria per farsi curare a seconda dei provvedimenti adottati nella Penisola o viceversa, ha probabilmente agevolato la propagazione del microrganismo da uno Stato all’altro. Per non parlare della mobilitazione e delle risorse che tali operazioni di rientro comportano per la Farnesina o per gli altri Ministeri degli Esteri.
In sintesi, dal momento in cui l’emergenza sanitaria in questione non trova una risposta che corrisponda alle sue dimensioni spaziali e temporali, i costi da assumere per il suo superamento aumentano. Rientri di persone, l’import-export di materiale e tempo che perde con il dibattito delle ultime settimane, producono l’inevitabile aumento dei costi sociali, economici e politici dell’emergenza. Si è passati così dalla possibilità di adottare delle politiche di prevenzione all’obbligo di dire “siamo in guerra”. L’acuirsi dell’emergenza, dunque, è dovuto in gran parte alle reazioni tardive e disordinate dei singoli Stati, i quali sono passati dalla sottovalutazione dell’emergenza ai provvedimenti di guerra secondo cui si deve scegliere chi salvare[4].
Un’altra triste dimostrazione è stata offerta ieri 26 marzo, durante la terza videoconferenza sostenuta dai rappresentanti dei 27 membri con l’obiettivo di trovare una risposta alla crisi economica che inizia a prendere piedi in mezzo alla pandemia. Tra l’ipotetica emissione dei Coronabond e il tentativo di accedere incondizionatamente al MES, l’assenza di una decisione congiunta comporterebbe il rischio di aumentare il divario tra gli Stati virtuosi e quelli meno virtuosi. Si tratta di un rischio che metterebbe a rischio la stessa zona euro e che ha fatto scendere il campo lo stesso Draghi. In effetti, l’ex-Presidente della BCE offre una lettura realista di una crisi che, a suo avviso, non è ciclica ma richiede un cambio di mentalità.
Ma la responsabilità di questo stallo è attribuibile ai singoli Stati anziché all’Unione Europea in quanto entità. Fino a quando, per prendere ogni decisione, sia necessario mettere d’accordo i capi dei singoli Stati, l’Europa non sarà altro che la somma di piccole briciole di sovranità che gli Stati concedono conservando per sé lo spazio per manifestare il loro egoismo nazionale. Anche se gli Stati avessero la migliore delle intenzioni, la decisione emanata da 27 Paesi costretti, per altro, a sedersi almeno quattro volte per poter fare una scelta, sarà sempre e comunque tardiva se confrontata con i ritmi dell’emergenza. Servirebbe, in queste occasioni, un ulteriore livello di governance in grado di affrontare certe emergenze che, di volta in volta, superano la dimensione degli Stati stessi e rischiano di lasciare conseguenze irreversibili sulla vita delle persone.
In altre parole, l’emergenza attuale si sta lasciando alle spalle un saldo con cui l’Europa e il resto del Mondo dovranno fare i conti nel lungo periodo e, sebbene a livello globale è probabile che l’anarchia continui a precedere la cooperazione, nello spazio unico europeo c’è un’interazione tale per cui, evidentemente, non basta l’ostentazione della Tessera Europea di Assicurazione Malattia, ma servirà una maggior collaborazione tra gli Stati, così come una maggior armonizzazione dei diversi sistemi sanitari affinché siano in grado di offrire delle risposte univoche a eventuali future emergenze che potrebbero presentarsi all’interno di questo spazio tanto stretto quanto unico.
Civitas Europa - Divisione Relazioni Internazionali
Dr. Estefano Soler
[1] Per sapere di più si veda il seguente articolo di CBS News del 27 marzo https://www.cbsnews.com/live-updates/coronavirus-news-latest-2020-03-26/
[2] Si veda FRANCE 24 – EN DIRECT – Info et actualités internationales en continu 24h/24 su YouTube (Edizione del 25 marzo 2020).
[3] Si veda l’articolo_Usa, «niente respiratori per i disabili». Più di 10 Stati scelgono chi salvare, Elena Molinari, Avvenire, 25 marzo 2020_ https://www.avvenire.it/mondo/pagine/niente-respiratori-per-i-disabili-pi-di-10-stati-scelgono-chi-salvare
[4] Si veda sopra i casi della Francia e degli Stati Uniti, dove dinanzi all’eventuale carenza dei posti letto si procederà, discrezionalmente, a decidere chi salvare secondo criteri tutt’altro che condivisibili all’interno di una democrazia liberale.
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