Brasile, tre del mattino: l'ora delle streghe.
Sono le tre del mattino di domenica 2 ottobre. Mancano poche ore all’apertura delle urne in Brasile, con gli elettori chiamati a scegliere il prossimo presidente tra Ignacio Lula Da Silva e Jair Bolsonaro.
È solo il primo turno, ma il Paese è polarizzato: l’occasione viene vissuta come una partita secca, senza ritorno. Quest’ultimo sarà imposto dalla realtà delle cose, che ha rimandato il finale al secondo turno.
È solo il primo turno, ma il Paese è polarizzato: incapace di ammettere attese, rinvii e il mancato schiacciamento dell’avversario.
Lo sanno i funzionari della Justica eleitoral (ente chiamato a garantire la trasparenza del voto e il corretto svolgimento dei comizi), rimasti in veglia tra dettagli logistici e quell’ansia – o senso di insicurezza – che caratterizza ogni elezione in America Latina. In veglia sono rimaste anche le sentinelle del voto: donne e uomini che raccolgono voti di mestiere. Spettri dormienti, di dubbia utilità sociale, che risorgono ogni quattro anni per scaricare il proprio arsenale sulle urne ancora aperte. Le sentinelle del voto sono anche sentinelle di territorio: girano avanti e indietro facendo campagna elettorale, con un borsello pieno di fogli di carta stropicciati, ma che donano loro senso di onnipotenza. Fogli di carta stropicciati e contenenti nome, cognome, indirizzo, numero di telefono dell’elettore contattato. Si prova uno strano senso del possesso ogni qualvolta si scrivono questi dati su una tabella di Excel trapiantata su Word e stampata su un foglio A4. Senso di onnipotenza incomprensibile se non si vive in America Latina, dove la politica è praticata con proselitismo ottocentesco, ma senza l’Illuminismo (corrente di pensiero mai attecchita nei gangli profondi della società, utile per abbellire i testi costituzionali dei differenti Stati della regione, rendendoli più vicini ad un Europa che, fino a poco tempo fa, era al centro del mondo; e di importanza direttamente proporzionale alla centralità del Vecchio continente, sempre più periferico per i nostri gusti). Queste sentinelle sono divise per bandi, divenendo riconoscibili agli occhi dell’elettore: non per dei lineamenti, tratti sommatici o ceto di appartenenza; ma per la manifestazione della propria fede politica nel vestiario e nell’impiego di un linguaggio impoverito dagli slogan di una campagna priva di proposte, di riflessione, di ogni maledetta proiezione di futuro. Le sentinelle sono l’incarnazione di tutto il semplicismo, di tutta la polarizzazione e della degenerazione dei rapporti sociali nel Paese. Quelle di Bolsonaro puntano fisiologicamente alla conservazione: il loro leader ha salvato la nazione dalla delinquenza nelle strade, così come dai fautori dello scandalo Lava Jato, che ha travolto l’intero establishment brasiliano (compresi Lula e il suo delfino Dilma Roussef). Consce di essere giustizialiste, più che giuste, le sentinelle di Bolsonaro provano un incontrollabile disappunto per il solo fatto che si debba votare. Per fare ciò che ha fatto il loro leader, non bisognerebbe chiedere il permesso agli elettori. Almeno non a quelli più poveri e manipolabili dalla sinistra clientelare di Lula. Quest’ultima difesa da sentinelle affette da bruxismo: sono quattro anni che i seguaci di Lula si stringono i denti in attesa del ritorno al potere. La sopportazione è stata lunga; e nessuno riesce a digerire questi anni di improvvisazione sotto la guida di Jair Bolsonaro: reazionario, ex-militare e propenso a favorire una parte cospicua della popolazione. Che poi questa parte coincida con i redditi più alti dovrebbe spiegarlo lui, che ha ipotecato l’Amazzonia ai potenti, negandola agli indigeni, che sono divenuti oggetto di emarginazione politica e sociale.
Perché Lula poteva essere corrotto e corrompibile, ma non inumano: non al punto di eliminare uno o più gruppi sociali dall’immaginario politico.
Lo stesso argomento viene usato al contrario dai sostenitori di Bolsonaro: il Presidente uscente potrebbe essere folle, troglodita e istigatore di violenze e soprusi, ma non si farebbe mai corrompere come fece Lula: a capo di un raffinato sistema di tangenti che accomunava imprenditori, uomini politici e dirigenti statali. Tutti bramosi di onnipotenza, ma in questo caso reale e non immaginaria: come quella delle sentinelle del voto, che percorrono a piedi o in moto le favelas in cerca di una decina di voti. Tutto questo per racimolare un pugnato di reales. È la cecità della base, incapace di vedere ciò che sta al vertice di un modello gerarchico, piramidale, ingiusto. Ed è contro questa ingiustizia che si scatena il giustizialismo dei sostenitori di Bolsonaro, che, pur di evitare ritorno di Lula, sarebbero disposti a dar vita a un modello più dispotico, ingiusto, disuguale di quello precedente. Il paradosso non può che metterci davanti all’evidenza, invisibile man mano che diviene più scontata agli occhi di tutti: qui non vi è un confronto tra ideologie, né tra programmi elettorali antitetici, ma tra due oligarchie che si contendono il potere esecutivo, che in America Latina significa tutto o niente. L’una, che si richiama all’establishment in quanto più abituata a governare (e quindi più competente), che è quella di Lula da Silva. L’altra, quella emergente (ed anche più improvvisata), che è quella di Bolsonaro: fautore della rivolta dei ricchi a discapito di tutti gli altri. Oligarchia contro oligarchia, élite contro élite, sentinelle contro sentinelle: il Brasile è un Paese sottoposto ad una cruenta spartizione, pacificata dall’alternabilità che, ogni quattro anni, vernicia di democrazia il sistema Paese; e dà sfogo a quelle sentinelle che scaricano il proprio arsenale sulle urne anziché sul volto del nemico. Elezioni, si chiamano. Ed in certi contesti si fanno per evitare guerre civili.
Sono le tre del mattino di domenica due ottobre in Brasilia. In Italia invece sono le otto. Il sole autunnale non sarà di certo quello di Manaus, ma fa sentire più allegri noi, che una settimana prima abbiamo assistito alla vittoria elettorale della Meloni (oppure dell’astensionismo, tutto dipende dalla prospettiva da cui si guardi un Paese frammentato anziché polarizzato).
A differenza delle sentinelle del Brasile, che somigliano tanto quelle del Venezuela, io con le elezioni non c’entro nulla. Mi alzo con calma dopo aver dormito almeno otto ore. Mi accorgo che in Italia non vi è nessun evento pubblico che ci faccia restare in Veglia tutta la notte. Questa funzione sociale viene assunta dalla maratona Mentana, ma senza un coinvolgimento diretto delle masse, addomesticate dietro lo schermo; senza tutta la tensione sociale che si vive in queste ore in Brasile, dove sono le tre del mattino. Realizzo che in tutta questa normalità si annida una parte consistente delle mie frustrazioni: stringo i denti, anch’io affetto da bruxismo, ma l’odore del caffè mi spinge alla rassegnazione. Sarà questo il nome del blackhole nel quale si perdono le nostre riflessioni domenicali? Chissà se qualcuno sarà mai riuscito a rintracciarle.
Di certo non i nostri opinionisti, che commentano il Brasile secondo le proprie categorie: parlano di Bolsonaro quasi a parlare della Meloni e associano Lula Da Silva ad una specie di sinistra radicale, emancipatrice dei più fragili e sempre più prossima ai diritti sociali.
Le analogie però vanno fatte bene. Non possono essere lasciate al caso.
Se fossero proprio inevitabili, bisognerebbe farle con un po’ di decenza, evitando di limitare l’analisi alle macrocategorie destra e sinistra: che da noi servono per dire ‘buoni’ e ‘cattivi’, ‘angeli’ e ‘demoni’, senza dirlo. L’arte di dire senza dire recitava anni fa un titolo sull’Osservatore Romano. Io invece proporrei un’analogia diversa (e un po’ di cose avrei da dirle): il socialismo di Lula sembra molto più vicino a quello di Craxi, con i suoi Mariuoli e le sue tangenti, che a un’eventuale sinistra radicale. A questo punto, Bolsonaro sarebbe un prodotto più simile a Berlusconi e non alla Meloni, nato a seguito dello scricchiolamento del vecchio assetto politico per mano del Potere giudiziario. Qui l’effetto dell’operazione Lava Jato, replica brasiliana di Tangentopoli: cambiano i nomi, ma restano i ruoli. Per i brasiliani, Alberto Youssef farebbe la parte di Mario Chiesa (primo pentito, per abbandono o per vocazione, di una rete clientelare estesa lungo i partiti, imprese e istituzioni). Sergio Moro sarebbe il Di Pietro degli anni migliori, protagonista inconsapevole di quanto il sistema Paese fosse incancrenito. Navigante di un’Odissea distopica, costretto a naufragare alla ricerca di un’Itaca inesistente: la giustizia. Queste analogie, dal sapore letterario, ci aiutano a comprendere il fuso storico che intercorre le stagioni politiche fra i due Paesi. Proprio come il fuso orario: l’ora dell’uno non corrisponde all’ora dell’altro. D’inverno, le otto in Italia equivalgono, in Brasile, alle tre del mattino: l’ora delle streghe se ci facciamo suggestionare dalla Poesia “Night, an Ode” scritta da Matthew West nel 1775. Due secoli prima, la Chiesa vietava ogni attività nell’arco di quest’ora: epicentro della massima attività soprannaturale. È anche l’ora di maggior attività da parte delle sentinelle del voto in Brasile. Un Paese alla mercé di creature mitologiche, che evocano i cataclismi dei nostri anni Novanta. Chissà quali altre sorprese ci riserverà questo fuso storico, che sovrappone stagioni politiche passate ad eventi presenti; e che condanna gli eventi presenti a ripetere gli stessi fallimenti delle stagioni passate. Attività soprannaturale, anche questa.
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